lunedì 30 marzo 2015
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Che quel comando sia stato dato deliberatamente, su un aereo di linea, e da un ufficiale addestrato dalla compagnia tedesca che si vanta di avere «i piloti migliori del mondo», è qualcosa che ci ha lasciato attoniti forse più di un attentato. La tragedia del volo Germanwings ha prodotto qualcosa di simile a una sottile incrinatura nel pavimento su cui camminiamo, e che siamo abituati a considerare stabile. Il settimanale tedesco Spiegel ieri attaccava il mito della efficienza tedesca, sotto al titolo: «Senza il terreno sotto ai piedi». Un pavimento incrinato, appunto. La questione però non riguarda solo una compagnia aerea. Riguarda noi.Quel pavimento, è la fiducia collettiva e diremmo innata che siamo abituati, fin da bambini, ad avere nel prossimo. E non solo in chi ci vuole bene. Ogni gesto, dai più elementari che compiamo ogni mattina, è possibile solo dentro a questa fiducia nell’altro: come potremmo bere l’acqua del rubinetto di casa, se pensassimo che qualcuno la ha avvelenata, o mangiare, se covassimo il dubbio che il cibo è intossicato? O salire su un treno, se non dando per ovvio che il macchinista si fermerà, a un semaforo rosso? La nostra vita è fondata su una tacita, profonda fiducia: che tutti, benché diversi o magari divisi e avversari, si tenda a un bene comune – si tenda a vivere, e non a morire. Per questo quel pulsante di discesa premuto coscientemente ci sconvolge: mentre il terrorismo è l’atto di un dichiarato nemico, questa volta invece avvertiamo qualcosa di più profondo, come un comune codice violato. Cosa dovremmo fare allora, su questo pavimento impercettibilmente incrinato? Una incrinatura in realtà c’è davvero: il cemento che tiene insieme la reciproca fiducia è anche in un vivere non individualistico, ma dentro legami forti e duraturi, per cui l’eventuale istante di disperazione, o di odio, è frenato da un pensiero: no, non posso, ho dei figli, ho chi mi vuol bene. (L’altro giorno su un volo Germanwings da Amburgo a Colonia il pilota ha detto ai passeggeri: «Signori, vi assicuro che io voglio tornare a casa, stasera. Mi aspettano». E i passeggeri hanno applaudito – come per un patto rinnovato). Quel patto, lo sappiamo, oggi è intaccato. Si vive sempre di più come monadi. È in una assoluta solitudine interiore che maturano narcisismi estremi, e fallimenti avvertiti come intollerabili, come va emergendo dalla biografia di Andreas Lubitz. Eppure, non possiamo smettere di fidarci. È nel nostro Dna il mettere la vita nelle mani del prossimo, ogni giorno, che sia un ferroviere, o l’ignoto tecnico di un’industria alimentare. Smettere di fidarsi, è come smettere di respirare. Abbiamo questa legge scritta dentro: è già nel riflesso naturale, con cui il neonato serra forte il dito che gli viene porto. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, nessuno ci garantisce contro la possibilità che il prossimo folle tocchi a noi. Vero: nessuno peraltro ci garantisce, senza bisogno di volare, di non essere noi, all’incrocio sbagliato, mentre arriva un pirata della strada ubriaco. Peggio: nessuno ci garantisce che a quell’incrocio non ci sia nostro figlio. C’è chi non ci pensa, c’è chi trova ogni modo di distrarsi, chi confida nella fortuna, chi legge gli oroscopi. I cristiani sanno che occorre, oltre che fidarsi dell’altro, affidarsi. Sanno che nemmeno la prossima mattina ci è garantita, e che ci è stato detto: nessuno conosce il giorno, e l’ora. E tuttavia non vivono nella paura: certi di non essere atomi smarriti, cose da nulla, ma figli. Lo erano anche i liceali tedeschi dell’aereo schiantato, e quel quattordicenne morto in auto, domenica scorsa, a Monza, a un incrocio, mentre, contento, andava a giocare a calcio. Perché per quei ragazzi sia andata così, è per noi un mistero straziante, davanti a cui taciamo e preghiamo. Tuttavia continuiamo a dire nel Padre Nostro, ogni giorno: «Sia fatta la tua volontà». Che è una frase che, se ci pensi, fa tremare. E però poggia, come su un’architrave, sulla certezza di un Dio buono: che ci conosce tutti, per nome, e uno per uno.
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