martedì 7 luglio 2009
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Non è mai facile per la comunità internazionale affrontare con la Cina il tema del rispetto dei diritti umani e delle minoranze etno­culturali, o della libertà religiosa. È un Paese troppo importante dal punto di vista economico e finanziario, estremamente determinato nel rifiutare con forza ogni accenno a quelle tematiche, e così cruciale dal punto di vista della sicurezza e della gestione delle crisi internazionali (Corea del Nord e Iran fra tutte), da rendere spesso afone le diplomazie e i governi. Da questo punto di vista, la nuova esplosione di violenza nello Xinjiang, tanto terribile e sanguinosa, con centinaia di morti e feriti, non poteva avvenire in un momento più delicato per l’Italia, alla vigilia della riunione G8 dell’Aquila, con il presidente della Repubblica popolare Hu Jintao in visita di stato a Roma, e con la stipula di molti importanti accordi economico­commerciali in agenda. Bene ha fatto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ad affrontare il tema del rispetto dei diritti umani a Pechino, sia pure con tutte le prudenze diplomatiche del caso e con un linguaggio concordato. Un silenzio del nostro paese – G8 o non G8 – sarebbe sembrato una acquiescenza totale dinanzi a una repressione che lascia senza fiato per il numero delle vittime. Sono ancora fresche le critiche mosse da molti alla visita del segretario di Stato Usa Hillary Clinton dello scorso febbraio, durante la quale il tema venne appena sfiorato. Certo, è ancora troppo presto per capire con chiarezza le dinamiche degli eventi, e il perché di un così tragico bilancio di vittime, il peggiore da decenni nella Repubblica autonoma dello Xinjiang. Una vasta regione nell’Asia centrale in cui le rivendicazioni della popolazione autoctona principale, gli uighuri, si mescolano alle tentazioni islamico-radicali, alle instabilità regionali, al traffico di droga, alle trasformazioni socio-economiche che i cinesi hanno imposto alla società tradizionale. Pechino ricorda spesso che nello Xinjiang vivono molte altre nazionalità (kazachi, kirghisi...) e che gli uighuri sono ormai una minoranza. Così come vengono sottolineati i problemi di sicurezza regionale e internazionali, legati ai traffici illeciti e al proliferare di gruppi islamici radicali. A ciò si aggiunge la necessità, per la comunità internazionale, di contare sul gigante asiatico per affrontare la gravi crisi economica (basti pensare alle quote di debito pubblico americano in mano cinese) e le sfide alla sicurezza internazionale. 'Provocare' Pechino con il tema dei diritti umani – si dice – significare rischiare politiche economiche, finanziarie e monetarie non collaborative da parte della cosiddetta 'fabbrica del mondo'. E ancora peggiori sarebbero le conseguenze in campo internazionale: la Repubblica popolare può infatti opporre il diritto di veto a ogni risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu, e può facilmente vanificare – o almeno rendere più difficili di quanto già non siano – i tentativi di fermare il programma nucleare iraniano o la deriva estremista e provocatoria del regime comunista di Pyongyang. Tutte considerazioni realiste, che suonano ragionevoli, alla luce anche dell’atteggiamento tutto sommato costruttivo e disponibile che il governo cinese manifesta su tali questioni. Tuttavia, un realismo politico che prescinda dai valori e dal rispetto tanto dei diritti delle minoranze (etniche, culturali o religiose) quanto delle singole persone sconfina facilmente nel cinismo e nell’indifferenza. Essere cauti nell affrontare un problema di cui Pechino non ama parlare non significa essere silenti; e a nessun Paese – per quanto importante o potente – può essere concessa una libertà d’azione incondizionata. Anzi, proprio il lavorare per risolvere assieme i tanti problemi sul tappeto può e deve spingere la Cina a moderare le proprie storiche paure nei confronti delle istanze particolari delle sue molte minoranze.
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