giovedì 23 dicembre 2010
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Oggi sembrano tutti riscoprire il desiderio quale motore dell’uomo, quell’energia senza la quale l’agire umano si spegne, traducendosi in pura reazione. Tutti lo riscoprono per denunciarne la scomparsa. E questo - per certi versi - sembra paradossale: mai come in questo nostro tempo l’immagine vincente sembra essere proprio quella dell’uomo che desidera: da quello che non deve chiedere mai, a quello che «voglio quindi sono!». Dove è finita, dunque, oggi tutta questa pedagogia del desiderio, sembra essere la domanda ricorrente di molti maître à penser.Eugenio Borgna ci propone una risposta. In una recente intervista, distingue tra grandi e piccoli desideri, tra desiderio di Dio e desideri di "cose" (materiali e immateriali) attribuisce al prevalere di questi ultimi, nella loro inevitabile limitatezza, una responsabilità nell’indebolimento del desiderio "grande". In effetti da Cenerentola in poi, il refrain de «i sogni son desideri» è risuonato, contribuendo a intorbidire le acque. Così il desiderio nel post-moderno si è tradotto in bisogno che, se non viene soddisfatto, subito provoca disagio e mal-essere. Così noi, nel nostro tempo, il desiderio lo riduciamo. Ne riduciamo la qualità e l’intensità. Salvo farlo riemergere - talvolta - come un delirio di potenza, tale per cui tutto ciò che si desidera (i "piccoli" desideri, naturalmente) è un diritto. Fino a giungere alla contemporanea - per usare la felice definizione di Giuliano Ferrara - «dittatura del desiderio». Giustamente, invece, viene segnalato da Borgna come il desiderio appartenga alla struttura più profonda dell’uomo: si tratta di un tema antropologico, prima che psicologico o sociale. Vorrei però provare qui, proprio nell’attesa del Natale, a spezzare una lancia anche a favore di quei desideri "piccini" che affollano così tanto il cuore dell’uomo, da togliere talvolta spazio al Desiderio con la maiuscola. Traggo spunto da un fatto raccontato da mio figlio che, a scuola, sta lavorando con alcuni insegnanti proprio sul tema del desiderio. Mi racconta di un compagno che, richiesto di una riflessione a riguardo, segnala all’insegnante e alla classe l’opportunità di non desiderare troppo, perché altrimenti si finisce per non essere mai soddisfatti di ciò che si ha. Allora ripenso al viaggio di quella famiglia, obbligata al censimento da un potere alieno, e credo - provo a immedesimarmi un po’ - che il capo famiglia, un carpentiere povero anche se di nobili origini, desiderasse proprio che sua moglie potesse riposare, in attesa del parto, in un luogo almeno un po’ accogliente e comodo. Credo anche che questo desiderio l’abbia fatto cercare a lungo nelle locande del posto, finché il realismo dell’avanzare della notte non lo costrinse a ripiegare su un ricovero di fortuna da condividere con due animali. Certo, a questo punto avrebbe potuto rimuginare rancoroso sull’ingiustizia della contraddizione tra il suo desiderio, in fondo piccolo, e la realtà. Invece avviene il miracolo della nascita del Figlio ed è questa, non la delusione, ad attirare il suo e lo sguardo di tutti.Credo che ciò che impedisce l’emergere dei desideri grandi, che fa prevalere l’insoddisfazione sullo stupore e sulla gratitudine che ne deriva, non siano i desideri piccini di noi poveri uomini di questo mondo, ma piuttosto l’incapacità a stare di fronte al positivo della realtà che ci si pone davanti. Come quel bambino. Se stessimo di fronte a questa presenza, forse ciò che desideriamo nel nostro limite, non sarebbe ostacolo alla soddisfazione, ma propulsore di bene per noi e per tutti.
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