"Coronation", verità scomoda e clandestina
venerdì 11 settembre 2020

C’è un film che sarebbe il caso di vedere. Non è nelle sale e non se ne parla in tv, lo si trova solo sul web – come spiega Angela Calvini a pagina 9 – e se si sa cosa cercare. È un film 'clandestino', firmato dal dissidente cinese Ai Weiwei, in esilio in Europa. 'Coronation' racconta Wuhan dal 23 gennaio 2020, dall’inizio dell’epidemia. La racconta grazie ai video girati da decine di volontari negli ospedali, nelle rianimazioni, in città: testimonianze dirette dunque, messe insieme dal regista, già autore di un film sulla tragedia dei migranti nel Mediterraneo. Un docu-film, un’ora e 40 minuti lenti, plumbei, angosciosi. Ma drammaticamente veri.

C’è la neve a Wuhan, a gennaio. Dalla città è vietato uscire. Estenuanti ricerche di distributori di benzina ancora in funzione. Polizia ovunque, una città stretta d’assedio. E mai il sole: un cielo livido copre perennemente l’audace skyline della metropoli, con i suoi grattacieli. Un video segue un medico all’ingresso in ospedale: si barda meticolosamente, come un guerriero medioevale prima della battaglia. Tuta, calzari, visiera, guanti: lentamente. Da una telecamera un addetto controlla che tutto sia corretto. Ci sono telecamere ovunque a Wuhan, in un controllo ossessivo. Se su un autobus un viaggiatore è positivo, tutti rintracciati, e in quarantena. Sistema efficiente, ma spietato. Gli operai che hanno tirato su a tempo di record i nuovi ospedali non possono lasciare la città, e non hanno un tetto. Dormono in auto, in garage sotterranei, come clandestini. Telefonano a casa, la linea cade. L’apocalisse, pensi, sgomento, mentre stai a guardare.

Ci vuole un po’ di coraggio, per guardare tutto 'Coronation'. Perché oltre al virus si intuisce, dietro, un possente sistema totalitario, che stenta a ridarti le ceneri di tuo padre, ma offre uno sconto sulla cremazione. Che convoca ordinatamente i parenti delle vittime per restituire un sacchetto ben schiacciato in un’urna: 'Morti dal numero... al numero...'. La gente aspetta, muta. Solo il pianto di una madre spacca il silenzio, un pianto antico come il mondo che trabocca infine, incontenibile.

Si vedono in tv dei disordini, la polizia contro i manifestanti. Un’anziana dirigente di partito commenta fredda: 'Non bisogna fare vedere queste cose'. Dai media viene ripetuto un appello a 'non essere emotivi' ad anziani pazienti che ascoltano dal letto, lividi ed emaciati.

Una spaventosa solitudine affiora da 'Coronation'. Ma, anche, un fatto oggettivo: già a gennaio è evidente che negli ospedali si conosce bene la potenza del virus. In corsia ci sono fila di respiratori, gli operatori sono protetti, nelle strade girano squadre di uomini che diffondono potenti getti disinfettanti. A gennaio, afferma implicitamente Ai Weiwei, a Wuhan si conosce il nemico. Mentre ancora a febbraio in Occidente sorridevamo delle mascherine, mentre le autorità europee e americane sembravano brancolare nel buio, nell’epicentro della pandemia si sapeva già quanto maligno e contagioso fosse il nuovo virus. Potevano ignorarlo a Pechino? (A oggi, oltre 700 mila morti nel mondo. La domanda ti resta in mente, mentre 'Coronation' finisce e chiudi il collegamento, con sollievo).

Il film non è stato accolto a Venezia né da altri festival internazionali. Per un giudizio negativo sul valore artistico, dicono i responsabili. Sul valore artistico non ci pronunciamo, ma 'Coronation' è un documento unico, storico, fatto com’è di video girati nell’ora dell’esplosione della pandemia, da testimoni oculari. E ci pare un po’ strano che di un simile documento non si parli, quando nei media si scrive ogni giorno di tante cose vane. Il Covid è tragedia del mondo e anche nostra. Se qualcuno che era a Wuhan a gennaio arrivasse qui e dicesse: vi racconto, vi faccio vedere, non ci interesserebbe? Il video è accessibile sul web dalla fine di agosto, ma continuiamo a non sentire parlare di 'Coronation'. Ci tornano in mente certe immagini livide, certi volti e occhi, e quelle telecamere ossessive, dappertutto, e ci diciamo: strano, questo silenzio. Quasi non si dovesse parlarne, quasi non si volesse vedere. E far vedere.

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