Aiuto al suicidio e morte a comando pesare bene le parole e ogni mossa
martedì 24 settembre 2019

Caro direttore,
sul “suicidio assistito” sono personalmente perplesso riguardo al rigore cattolico. Sicuramente la vita è grande dono di Dio. Dio non ritira il suo dono, la vita è nostra, ed è sempre affidata in tutto alla nostra responsabile coscienza personale. Possiamo anche decidere di morire per una causa degna: i martiri; chi muore per salvare altri, come fece coscientemente padre Kolbe. Può essere, in casi estremi, moralmente preferibile la morte a una vita impossibile sotto vari aspetti rispettabili, comprensibili. Potrebbe essere restituire il dono, senza disprezzo né mancanza di gratitudine. Ci sono malati che pregano il Padre di farli morire, quando la vita per loro è peggiore della morte! Come un tempo si chiedeva il miracolo della guarigione, che oggi si cerca con l’azione medica, così non vedo soltanto male nel voler attivamente morire, in casi davvero estremi, in coscienza. Tanto più che, nella fede, la vita muta, non si perde nel nulla, ma torna al Padre. Il cristiano non vede nella propria morte il peggiore dei mali. La morale cattolica ha perfino giustificato il dare la morte agli altri (pena capitale, guerra “giusta”) e oggi se ne pente. Si potrebbe parlare, in serena ricerca, sul serio problema della morte volontaria? Grazie dell’attenzione.

Enrico Peyretti

Caro direttore, ho visto l’apertura di pagina dedicata il 12 settembre da “Avvenire” al tema del suicidio assistito e dell’eutanasia. Le faccio notare, che un altro giornale pubblicò una lettera di Massimo Gandolfini sul testamento biologico il 31 luglio scorso. E che a Radio Maria, nella sua trasmissione di bioetica mensile, lo stesso Gandolfini ha “scandagliato” l’argomento, citando i disegni radicali già pronti, lamentando l’assenza dei cattolici e invitando a pregare e ad approfondire l’argomento. Non mi sembra che sia stato ascoltato né da lei, né dalla Chiesa. Da voi avremmo desiderato una informazione pacata ma puntuale e prolungata, come fate per gli immigrati. Ci sentiamo traditi. Questi articoli apparsi sul giornale e questi pronunciamenti di chi governa la Chiesa sono tardivi e controproducenti. Bisogna ristabilire le priorità: la vita è una di queste. Cordiali saluti

Gabriella Di Venanzio Salvioni

Ragionare con tutta la possibile serenità e pesare bene ogni parola e ogni passo e mossa, soprattutto le parole che si fanno norma e i passi e le mosse che ci fanno inoltrare su chine rischiose per la vita degli uomini e delle donne: è questo che cerchiamo di fare e sollecitare, gentile signor Peyretti, da cittadini e da credenti. E lo facciamo da anni, gentile signora Di Venanzio. Con la continuità – soprattutto sui temi “sensibili”: dalle questioni bioetiche in senso stretto a quelle di politica internazionale e del governo o dello sgoverno delle migrazioni di esseri umani – che ci riconoscono anche coloro che, in tutto o in parte, la pensano in modo schiettamente diverso da noi. Poi, ovviamente, ci sono le caricature delle posizioni altrui che vengono fatte e addirittura premeditate. A noi cattolici, ma non solo a noi, toccano spesso. Parecchie volte per inveterati tic polemici: secondo questi schemi, i cattolici (e a maggior ragione i vescovi e i preti) non dicono mai la loro e non offrono mai un punto di vista razionale e motivato: o “benedicono” o “scomunicano”, o “battezzano” o “lanciano anatemi”... Ma le caricature arrivano anche per mano (e bocca) di altri cattolici, che magari leggono o ascoltano quello che altri ancora scrivono e dicono contro la Chiesa e contro “Avvenire”. Oppure hanno la convinzione di essere i primi a scoprire e affrontare un dato tema, secondo la (il)logica del “solo quando lo leggo, o lo ascolto, io ... ”. A lei, signora Gabriella – che sebbene cerchi il dialogo con me evidentemente nulla o pochissimo ha letto, ascoltato e visto di ciò che abbiamo messo in pagina e nel pubblico dibattito dall’autunno 2018, dopo l’ordinanza della Corte costituzionale sul suicidio assistito, a oggi – consiglio un rapido “ripasso digitale” nel nostro sito, sezione dedicata “Fine vita”. Spero che troverà la lettura utile. E spero anche che si renda conto che sentenziare precipitosamente non è mai saggio. Con lei invece, signor Enrico, che considera, in sostanza, le nostre posizioni sulla morte procurata come espressione di un rigorismo morale un po’ astratto, provo invece a intessere un supplemento di dialogo. Noi non siamo in guerra con la morte, che è parte della vita. Secondo il disegno di Dio, che ognuno può leggere anche con umanissimi occhi. Diciamo pure che il suicidio è una vertiginosa libertà della persona, ma non è un “diritto”. Crediamo, lo ripeto, che la morte sia parte della vita e che sia la porta sull’eternità e sappiamo come tutti che essa sia inevitabile proprio come il dolore (al quale, del resto, la morte non è rimedio, se non per consunzione ed estrema disperazione). Sosteniamo anche che l’irrogazione a comando della morte non deve mai più diventare affare e compito della Legge e degli Stati: non con la guerra, non con la pena capitale, non con l’aborto, non con l’eutanasia attiva o passiva. Che la morte inflitta o garantita sia ancora oggi, in diversi modi, affare e compito dello Stato e che lo sia stata a lungo nella vicenda umana è una triste realtà, non una verità consolante. Così come che questa morte imposta sia stata e venga ancora giustificata da diverse autorità morali e religiose. Si tratta di una posizione radicale? Sì, è possibile definirla così. Ma è anche serena, chiara e aperta al dialogo. Il miracolo, che pure io invoco, è che cominciamo ad ascoltarci tutti e per davvero. Rilegga, per favore, la recente riflessione del cardinal Gualtiero Bassetti su aiuto al suicidio e diverse forme di eutanasia e vedrà con quanta umana delicatezza e con quanto rispetto il presidente della Cei motiva la posizione della Chiesa. E come egli ragioni, giova ricordarlo alla vigilia di un’attesa riunione della Corte costituzionale, sulla «via più percorribile» per dare soluzione al problema che la stessa Consulta aveva posto undici mesi fa al Parlamento e cioè la possibile «attenuazione e differenziazione delle sanzioni dell’aiuto al suicidio, nel caso particolare in cui ad agire siano i familiari o coloro che si prendono cura del paziente». Uno «scenario, tutt’altro che ideale», sottolinea il presidente della Cei, ma che «sarebbe comunque altra cosa rispetto all’eventualità di una depenalizzazione del reato stesso». Credo che tutti dovremmo riflettere bene sul punto. Siamo figli di una cultura, di un umanesimo anche inconsapevole, che ci porta a sostenere chi rischia di perdere la vita oppure medita di togliersela (e possiamo resistere allo slancio o cercare alibi e chiudere gli occhi, ma non possiamo negarlo). Per questo la persona che interviene è, da sempre, considerata giusta e persino eroica (tant’è che troviamo ancora esecrabile chi lascia affogare qualcuno, bagnante o migrante che sia, mentre potrebbe salvarlo). Vogliamo davvero capovolgere per legge tutto questo e stabilire che nel caso dell’aiuto al suicidio l’eroe sarebbe chi dà la spinta definitiva all’altro proteso sul parapetto della vita? Non esistono ricette preconfezionate, e bisogna poter valutare situazioni e condizioni che è difficile catalogare a priori, ma non è difficile convenire che solo l’amore e la dedizione di chi ha un legame di famiglia e/o di cura con qualcun altro può essere compreso se arriva a “servire la morte” violando un principio cardine della civiltà non solo cristiana come quello dell’intangibilità della vita altrui. Ma da qui a stabilire che il primo che passa, o che si candida, possa diventare coprotagonista e cooperante al suicidio di un altro... La morte, caro signor Peyretti, è alla fine dura e semplice, ma può ben essere serena per fede, per alta concezione morale e, comunque, per onesta e generosa medicina palliativa. La vita è meravigliosa, eppure può essere anche molto complicata. Pensare di usare la morte per governare e risolvere le complicazioni della vita potrebbe rivelarsi, questo sì, espressione di in rigorismo algido, teso a creare contesti che confondono e svuotano di senso la vita stessa e la sua autentica dignità (che si manifesta anche nel modo della morte, ma che è prima di tutto nell’esistenza). E qui le confesso che ogni volta che mi avventuro lungo questi pensieri, ho la sensazione di aver detto e scritto troppo eppure non abbastanza. Ma sento anche che è bene che sia così, che il pudore e disagio emergano, che parlare della morte degli altri e del potere di procurarla continui a farci male.

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