martedì 23 luglio 2019
Così la Chiesa si confronta con Pechino sui molti nodi ancora aperti sottraendosi all’uso strumentale della fede
Una funzione religiosa nella cattedrale cattolica di Pechino (Foto Epa)

Una funzione religiosa nella cattedrale cattolica di Pechino (Foto Epa)

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La libertà religiosa è un problema drammatico in molte aree del mondo. Per questo non dovrebbe mai essere strumentalizzata. Oggi questo principio è al centro di un duro scontro tra Stati Uniti e Cina. Il recente convegno organizzato dai primi su questo tema ha costituito l’occasione per un forte attacco contro la seconda. «La Cina è la patria di una delle peggiori crisi dei diritti umani dei nostri tempi; è veramente la macchia del secolo», ha detto il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, riferendosi alla situazione degli Uiguri musulmani dello Xinjiang. «La carta della libertà religiosa è un trucco che gli Stati Uniti usano da molto tempo per esercitare pressione» sugli altri Paesi, ha risposto il Global Times, giornale ufficioso di Pechino, stigmatizzando le contraddizioni dell’amministrazione Trump, iniziata con il noto bando dei viaggiatori provenienti da sette Paesi musulmani che ha aggravato «l’ostilità e l’estraneità tra l’Occidente e il mondo islamico».


Leone XIII a fine Ottocento diceva che tra i cinesi il Vangelo si annuncia meglio senza i cannoni francesi.

La storia mostra che spesso gli Stati hanno cercato di affermare o estendere la propria sovranità utilizzando le questioni religiose. Per secoli Spagna, Portogallo, Francia e altri Paesi europei hanno affermato il proprio potere in America Latina, Africa e Asia costituendosi come 'protettori' dei diritti dei fedeli cattolici. In ambito anglosassone, obiettivi simili sono stati spesso perseguiti attraverso l’affermazione della 'libertà religiosa'. Spesso l’affer-mazione di questa libertà è stata legata all’imposizione di 'porti aperti', dove la presenza di molteplici minoranze nazionali, linguistiche e religiose favorisce lo sviluppo di traffici commerciali, economici o finanziari. In altri casi, invece, la libertà religiosa è stata rivendicata in situazioni – come le regioni di frontiera – dove questo problema si mischia a quello di minoranze etniche divise tra diverse sovranità. E così via.

Da tempo la Chiesa cattolica si è svincolata dalle strumentalizzazioni del colonialismo europeo rifiutando la logica del protettorato. In Cina il Vangelo si annunzia meglio senza i cannoni dell’armata francese, affermava già Leone XIII alla fine dell’Ottocento. Oggi, però, la Chiesa subisce molteplici pressioni perché si schieri nelle battaglie occidentali in tema di libertà religiosa. L’Accordo tra Santa Sede e Cina del 22 settembre 2018 non è piaciuto a chi avrebbe voluto usare le questioni religiose come arma politica contro il governo di Pechino. Ma la fermezza nella fede non può essere confusa con affermazioni di forza. Se la Santa Sede aderisse a usi strumentali della libertà religiosa sarebbe percepita come alleata di potenze nemiche della Cina. E otterrebbe assai poco per la libertà dei credenti: l’Asia è il continente dove il problema è più diffuso e dove le pressioni occidentali possono di meno. Non basta neanche dichiarare in astratto la separazione tra politica e religione. È invece necessario distinguere concretamente tra problemi dei fedeli cattolici e questioni di equilibri internazionali. È quello che ha fatto la Santa Sede in Cina, scegliendo la via del dialogo: dialogare, infatti, significa mostrare in concreto che non si punta ad affermare la sovranità di qualcuno o a indebolire quella di qualcun altro. Ma ciò non vuol dire rinunciare all’obiettivo della libertà religiosa e, soprattutto, a quello di annunciare la propria fede: il dialogo presuppone la certezza della propria identità e non ha nulla a che fare con l’apostasia. A questa linea si ispirano anche i recenti Orientamenti pastorali per la registrazione civile del clero in Cina, pubblicati il 28 giugno. A qualcuno è sembrato che, raccomandando a cittadini cinesi come comportarsi in Cina, questo documento intervenisse su affari interni sotto la sovranità cinese. Ma non era questa l’intenzione della Santa Sede ed è significativo che non ci sia stata una protesta ufficiale delle autorità cinesi come tante volte in passato. Indubbiamente, gli Orientamenti segnalano alcune questioni ancora aperte, ma insistono al tempo stesso ben tre volte sull’importanza del dialogo tra la Santa Sede e le autorità cinesi.


La Chiesa è oggetto delle molteplici pressioni di chi la vorrebbe schierata nelle battaglie ingaggiate da altri.

È necessario infatti cercare ancora per giungere a una soluzione definitiva della questione del riconoscimento del clero clandestino in Cina. Anzi, più soluzioni definitive: i vescovi 'clandestini' non sono molti, ma le loro situazioni sono tutte diverse l’una dall’altra e tutte molto complesse. Alle loro spalle ci sono lunghe vicende, percorsi sofferti, scelte da cui è difficile tornare indietro. Non mancano, inoltre, pressioni dall’esterno, seminatori di zizzania e la perenne tentazione di tornare alle contrapposizioni frontali e alle scelte unilaterali. Sono tutte spinte contro il dialogo. Ma se lo si interrompesse si rischierebbe di annullarne il risultato più importante: la possibilità che si è aperta, dopo l’Accordo tra Cina e Santa Sede, di affrontare una per una queste delicate situazioni, cercando per ciascuna la soluzione più adatta. Indubbiamente, il dialogo non è oggi molto popolare nel mondo. Vanno piuttosto di moda il confitto e lo scontro. Il dialogo, infatti, sembra cosa da 'buonisti', mentre affermare la propria sovranità appare roba da duri. Il primo sarebbe dei perdenti, la seconda dei vincenti. Per questo, chi ha la forza la usa o, almeno, minaccia di usarla. Diventa così rischiosamente facile che il gioco sfugga di mano, senza che, nella maggior parte dei casi, chi scatena il conflitto ottenga successi duraturi. In realtà, il dialogo non è l’arma dei perdenti, bensì di chi guarda lontano. Gli Stati che oggi insistono su una logica di affermazione della propria sovranità non tengono conto che quest’ultima è investita da incertezze crescenti che ne minano le stesse prerogative fondamentali. Nessuno è più interamente padrone a casa propria, e per questo crescono sempre di più disorientamento, paura, aggressività, rendendo instabile il mondo e spingendo ad abbandonare la via della cooperazione multilaterale. Ma oggi la sovranità effettiva di qualsiasi Stato dipende soprattutto dal riconoscimento degli altri Stati: non sono la moneta e l’esercito a garantirla, ma le relazioni e la collaborazione con altri soggetti internazionali. Ecco perché c’è bisogno del dialogo.


È sempre più chiaro che occorre saper distinguere tra i problemi dei fedeli cattolici e le questioni di equilibri internazionali

Che Donald Trump abbia compiuto alcuni passi insieme a Kim Jong-un sul territorio nordcoreano è apparso un grande evento perché ha acceso speranze di dialogo. Anche tra Stati Uniti e Cina non è molto diverso: gli scontri sui dazi servono a precostituire condizioni favorevoli alla propria parte in vista di un dialogo futuro. Perché a un dialogo si dovrà arrivare: è nell’interesse di entrambi accordarsi sulle condizioni in cui vendere o comprare soia, tecnologia e quant’altro. C’è chi lo ha capito prima di altri, papa Francesco è tra questi. La sua volontà di dialogo non riguarda solo la Cina. In occasione della firma del Documento sulla Fratellanza umana, il 4 febbraio ad Abu Dabhi con il grande imam di al-Aznar Ahmad Al-Tayyeb, papa Francesco ha affermato che la 'famiglia umana' si custodisce «anzitutto mediante un dialogo quotidiano ed effettivo».

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