martedì 18 dicembre 2018
Un progetto vuole prevenire e combattere i soprusi contro di loro, fin da bambine. Un fenomeno molto diffuso per ragioni sia culturali che sociali, reso più grave da povertà, alcol, droga

Ad aprile è iniziato, nella baraccopoli zambiana di Kanyama, il progetto Stop The Violence, che vuole prevenire e combattere la violenza contro le donne e le bambine. Fenomeno, specie all’interno delle famiglie, molto diffuso per ragioni sia culturali che sociali. Vengono ancora praticati anche rituali e rispettate tradizioni che pongono le donne in una condizione di estrema sottomissione nei confronti dell'uomo, che sposandosi di fatto "compra" la donna pagando la famiglia della moglie. In una baraccopoli come Kanyama povertà, alcol, droghe e criminalità, combinati con lo scarsissimo livello di istruzione, peggiorano ulteriormente le condizioni di vita delle donne.

Elena Arvati e i suoi collaboratori zambiani agiscono in tre direzioni: con un'Unità Mobile sul territorio, visitando le famiglie, parlando del problema; con uno Sportello che offre assistenza psicologica, sanitaria e legale alle vittime; e con interventi di prevenzione nelle scuole per i ragazzi e nelle chiese per gli adulti. «In questi primi mesi di lavoro - scrive Elena Arvati - abbiamo iniziato a farci conoscere e molte persone hanno iniziato a rivolgersi a noi per chiedere aiuto: persone con alle spalle vissuti terribili di sofferenza e violenza, che finalmente hanno detto “basta”! Lo scoglio maggiore che dobbiamo affrontare è proprio quello della famiglia: nello Zambia la famiglia partecipa a tutte le decisioni dell'individuo e quindi può rivelarsi un enorme ostacolo per una donna che ha deciso, ad esempio, di denunciare il marito.

«Se da una parte una grossa sfida è quella di rendere le persone consapevoli dei propri diritti e spingerle a chiedere aiuto, dall'altra c'è anche quella di far valere questi diritti di fronte alle istituzioni - continua Elena -. Tante volte ci è capitato di portare persone in condizioni orribili alla polizia o in ospedale perchè ricevessero le giuste cure, e ci siamo ritrovati di fronte a poliziotti o medici che facevano battute, ridacchiavano, banalizzavano o addirittura si rifiutavano di firmare referti, previsti dalla legge, perchè "da noi è normale, si usa così"».

«Tutto questo ci fa capire ancora di più quanto dobbiamo combattere per queste donne, per queste bambine che hanno il diritto di essere ascoltate, capite, curate, e ci fa anche capire quanta strada dobbiamo fare per aiutarle, imparando ogni giorno da loro e crescendo nella nostra esperienza. Loro hanno trovato la forza di lottare e noi, nel nostro piccolo, dobbiamo lottare con loro.

La strada è lunga, ma la motivazione cresce ad ogni incontro, ad ogni occhio pestato, ad ogni racconto di dolore che noi possiamo capire solo in parte, ma che abbiamo la responsabilità di custodire e raccontare per raggiungere più persone possibili e per far capire che "non è normale", che "non dovrebbe essere così"».

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