sabato 28 maggio 2022
Sono oltre 3,3 milioni i russi che vivono nel Paese aggredito, molti di loro da anni. Ora sono in bilico. E intanto a Kiev centinaia di strade con nomi russi cambiano: non si salva nemmeno Tolstoj
La città di Kiev ha avviato la demolizione della statua all'Arco dell'amicizia dei popoli costruita dai sovietici nel 1982 nel centro della capitale ucraina, 26 aprile 2022. "Questo posto non rappresenta più l'amicizia tra la Russia e l'Ucraina, la Russia ci sta attaccando. Qui sorgerà il monumento dedicato alla libertà dell'Ucraina", ha detto il sindaco Vitaly Klichko sul posto. La statua di bronzo simboleggia due operai, uno ucraino e uno russo che sorreggono la stella dell'Ordine sovietico dell'amicizia dei popoli'. Il russo è già stato 'decapitato'

La città di Kiev ha avviato la demolizione della statua all'Arco dell'amicizia dei popoli costruita dai sovietici nel 1982 nel centro della capitale ucraina, 26 aprile 2022. "Questo posto non rappresenta più l'amicizia tra la Russia e l'Ucraina, la Russia ci sta attaccando. Qui sorgerà il monumento dedicato alla libertà dell'Ucraina", ha detto il sindaco Vitaly Klichko sul posto. La statua di bronzo simboleggia due operai, uno ucraino e uno russo che sorreggono la stella dell'Ordine sovietico dell'amicizia dei popoli'. Il russo è già stato 'decapitato' - Ansa

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«Come nel meccanismo di un orologio, così nel meccanismo di un’operazione militare il movimento una volta avviato è inarrestabile e le parti della macchina non ancora entrate in funzione sono inerti e indifferenti fino a un istante prima della trasmissione del movimento», scrive Lev Tolstoj nel capolavoro “Guerra e pace”.

Un’osservazione acuta che trova l’ennesima conferma nell’attuale tragedia ucraina. Il celebre romanziere russo, però, probabilmente, non avrebbe mai pensato di finire tra gli ingranaggi di quel “movimento" che tanto aveva cercato di smontare in vita. Invece, a breve, lo sarà.

La fermata della metro e la piazzetta adiacente a lui intestate, nel cuore di Kiev, sono fra i 460 luoghi a cui il municipio di capitale ha deciso di cambiare nome nelle prossime settimane. A questo si somma la rimozione di una sessantina di statue dedicate a personaggi del mondo dell’arte, della cultura, della politica russa. Il simbolo per eccellenza del legame fra i due Paesi – l’Arco dell’amicizia, risalente all’era Breznev –, situato a qualche centinaio di metri da Maidan, era scampato alla rivolta del 2014. Stavolta non ce l’ha fatta: alla fine di aprile, è già stato ribattezzato “Arco della libertà”. Del monumento sottostante che celebrava l’unione indissolubile tra lavoratori russi ed ucraini, resta a malapena il basamento.

L’invasione e il pugno di ferro con cui il Cremlino cerca di “russificare” le zone occupate ha scatenato un’ondata di “cancel culture” a Kiev. «Sono laureato in letteratura russa ma se piazza Lev Tolstoj sparisce sono felice. Meno abbiamo a che fare con Mosca, meglio è», afferma Mec, guida turistica. «Ex guida turistica. Quando è scoppiato il conflitto il mio capo mi ha chiesto di firmare un foglio in cui chiedevo aspettativa non retribuita fino al termine della guerra. Formalmente, dunque, sono in servizio ma, in realtà, sono disoccupato. E anche questo lo devo ai russi».


Se cancellare targhe e monumenti è relativamente facile, non lo è altrettanto recidere i fili intrecciati in secoli di storia. Nodi personali e sociali più resistenti delle turbolenze politiche, inclusa la dissoluzione dell’Unione Sovietica. «Da bambino, c’era un personaggio dei cartoni che mi piaceva tanto: il cane-gatto. Aveva una zampa da cane e una da gatto. Mi sento come lui. Sono nato a Mosca e sono cittadino russo. Abito a Kiev da undici anni e, dunque, sono anche ucraino. Come faccio a scegliere che zampa tagliarmi?», racconta Gennady Roshchpkin.

Sono oltre 3,3 milioni i russi residenti in Ucraina, in base agli ultimi dati risalenti al 2019: la più numerosa comunità immigrata. Molti sono arrivati nella nazione vicina proprio per sfuggire al bavaglio dello zar Vladimir Putin.

E ora si trovano tra due fuochi. «Sono una fotografa. Avevo un buon impiego in un museo ma ero stanca della retorica putiniana. Negli ultimi cinque anni, Kiev è stata una boccata d’ossigeno. Questa guerra ora mi fa mancare l’aria», afferma Julia, il nome è di fantasia. «Sono già molto esposta così, vorrei evitare di peggiorare la situazione», prosegue la giovane, che lavora in un collettivo di artisti. Un ambiente aperto eppure «a volte, noto che i colleghi mi guardano con un certo sospetto o, non so, sfiducia. Non è più come prima».

«Proprio rabbia e vergogna per questo insensato conflitto. Dopo il 24 febbraio avevo paura di essere rifiutato dai miei amici, per fortuna non è stato così. Non ho nemmeno sofferto discriminazioni. Sono ufficialmente iscritto nel registro degli abitanti della città, dunque la polizia ha i miei dati. Eppure nessuno è venuto a farmi domande», sottolinea Gennady che, dopo anni di impegno in Russia in organizzazioni internazionali per la difesa dei sieropositivi, si è trasferito prima a Vilnius e, poi, nella capitale ucraina «perché era più facile lavorare». Attualmente è impiegato nella Instant Europe and Central Asian organization of people living with Hiv. «In ufficio, a volte, discutiamo con i colleghi che mi domandano perché Putin abbia colpito. La verità è che non me lo spiego nemmeno io. I rapporti più complicati, però, sono quelli con i conoscenti: vedo che la gente, spesso, si sente “scomoda” quando ci sono. Non mi stanco di ripeterlo: questa è la guerra di Putin non dei russi. La gran parte delle persone che conosco là, la pensa come me».

Finora, non si ha notizia di aggressioni a cittadini russi nella capitale, Mikael, insegnante, immigrato a Kiev da San Pietroburgo quindici anni fa, però, non se l’è sentita di restare. Aveva paura e a metà marzo, insieme alla moglie, è partito per la Moldavia. «Non so se sia stata la scelta giusta. L’Ucraina ormai era la mia casa», sostiene. Anche Alina, originaria di Mosca, ha lasciato la capitale: ha accettato l’ospitalità della cugina a Berlino e ora sta cercando di reinventarsi un’esistenza. «Avevo un buon posto: mi occupavo di marketing in un’impresa turistica. Non so se in Germania troverà qualcosa di simile. Ma come potevo rimanere?».

Sergeij, invece, è rientrato a Perm, dopo quasi vent’anni: «Molti? Per i miei amici non erano abbastanza. Dal 24 febbraio, mi sono reso conto che per loro ero sempre un russo. In realtà, non lo so nemmeno io che cosa sono. È davvero una frontiera a definirci?

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