venerdì 18 settembre 2020
Abu Mayer lavorava nel pronto soccorso «alternativo» allestito nei sotterranei dell’ospedale militare di Damasco. «Ho visto con i miei occhi le violenze sugli oppositori ma è difficile avere le prove»
Numerose inchieste internazionali denunciano gli abusi sui dissidenti in Siria

Numerose inchieste internazionali denunciano gli abusi sui dissidenti in Siria - .

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Esiste un pronto soccorso “alternativo” ed è un dipartimento segreto nei sotterranei del Tishreen Military Hospital a Damasco, il più grande ospedale militare della Siria. Viene attivato solo in casi speciali come arresti massicci o rivolte, come quella nel carcere di Sednaya nel 2008: prigionieri morti o feriti, nascosti o seviziati sottoterra, sotto il controllo dei servizi segreti militari. Ad aprire il reparto era Abu Mayer, un infermiere militare che ad Avvenire racconta l’efferatezza delle repressioni con cui il regime ha risposto alle prime proteste già nel marzo 2011, denunciando la «sistematicità» delle torture e degli arresti arbitrari, oggetto negli ultimi anni di denunce e procedimenti giudiziari per violazione dei diritti umani e crimini guerra in Europa e Stati Uniti.

L’ultimo a Coblenza, in Germania, è il primo processo penale al mondo contro membri del regime. Abu Mayer non è un testimone davanti ai giudici tedeschi ma in altre inchieste internazionali e conosce il coraggio di chi ha deciso di denunciare perché ha vissuto quei fatti dal lato dei carnefici. Capo del dipartimento “Soccorso ed emergenza” della polizia militare, originario di Deir Ezzor, nella struttura di 4mila dipendenti l’infermiere rispondeva direttamente al solo direttore. «Il 9 aprile 2011, alle 3 di notte, sono stati portati 107 martiri e 87 feriti. Questi sono stati torturati in modo crudele.

Nel primo giorno ne sono morti tre. Uno si chiamava Mohamed Hassan Hazobi, 81 anni. Ho protestato molto, così sono stato trasferito e poi licenziato ». Abu Mayer ha lavorato negli ospedali dell’opposizione, pubblici, prima di fuggire in Europa. «All’inizio i militari riconsegnavano i cadaveri ai parenti. Poi hanno smesso di farlo. Ci obbligavano a compilare certificati con un numero, la data, la morte per «arresto cardiaco» o «difficoltà respiratorie », ed avevamo i documenti ma non i cadaveri – racconta –. Cifre enormi. Ogni giorno un furgone frigo raccoglieva i corpi, faceva il giro, usciva dall’ospedale di Harasta, passava da noi, al 601, da al-Khatib e altri centri militari e poi lì rientrava. Era tutto top secret.

Alcuni di noi dicevano che venivano bruciati per nascondere le prove, altri che finissero nella fossa comune, altri che prendessero loro le cornee». Prima della guerra, alcune fonti affermano che costassero 2.500 dollari. Un’ipotesi atroce ma coerente, sostiene l’infermiere, col “sistema” diretto dal medico alauita Ammar Sulaiman, capo dei servizi sanitari mi-liari, personaggio temuto «anche dai suoi superiori», amico personale di Assad: casi di espianti di organi. «Molti feriti o casi critici vicini alla morte venivano collocati nel dipartimento segreto senza ricevere cure – racconta l’ex dirigente –. Il regime fotografa ogni corpo. Alcuni prigionieri venivano uccisi con un colpo di pistola nella pancia o nel petto. Certe ferite all’addome che si vedono sono operazioni mediche. Il colpo di pistola serve a dire che erano feriti e si è provato a salvarli aprendoli».

Teoria da verificare, mentre un documento raccolto dall’europea Commission for International Justice and Accountability dimostra che, nel dicembre 2012, il capo dipartimento dell’intelligence ordina di inviare i cadaveri all’obitorio di un ospedale militare e nel febbraio 2017 Amnesty International denuncia la presenza a Saydnaya di quel che sembra un forno crematorio, mostrandone le immagini satellitari. «Ho visto coi miei occhi ma è difficile avere documenti. Chi è fuori dal sistema sanitario militare non ha prove contro il regime, che mette ai vertici medici alauiti fedelissimi agli Assad. Medici che considerano i siriani come animali in una grande fattoria a loro disposizione».

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