sabato 1 febbraio 2020
Questo divorzio non sarà indolore per nessuno, a cominciare dal Regno Unito
In piazza a Londra la sera del 31 gennaio. La Brexit diventa realtà

In piazza a Londra la sera del 31 gennaio. La Brexit diventa realtà - Reuters

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Pagheremo tutti, in un modo o nell’altro. Pagheremo tutti questo divorzio, a cominciare dal Regno Unito, il cui pedaggio per mancata crescita economica provocata dalla Brexit raggiungerà secondo stime prudenti i 200 miliardi di sterline: curiosamente, la stessa somma che Londra ha versato all’Europa dal momento del suo ingresso nella Cee nel 1973 a oggi.

Pagheremo l’uscita dal continente di una nazione da sempre riottosa e orgogliosa, troppo orgogliosa della propria eccezionalità, che ha rifiutato moneta, regole finanziarie, normative che si armonizzassero con il resto d’Europa forte di quegli opt out che le consentivano restare dentro rimanendone in parte fuori, di beneficiare dello status di Paese membro salvo poi reclamare la propria estraneità secondo convenienza.

E pagheremo anche il lutto di una civiltà, di uno stile di vita, di una tradizione politica, parlamentare e anche filosofica che è stata un pilastro della modernità nei secoli crudeli in cui si formavano con il ferro e con il sangue gli Stati nazionali come li conosciamo oggi.

«Non è una fine, ma un inizio», ci si ostina fin d’ora a dire a Bruxelles, reprimendo quel groppo alla gola che fatalmente ti assale di fronte al corteo di ex eurodeputati britannici avviarsi – con l’Union Jack sottobraccio – verso la stazione degli Eurostar per fare ritorno a Londra, rimanendo giusto il tunnel sotto la Manica il residuo cordone fisico che ci tiene vicendevolmente attaccati.

Le note di dolente dolcezza di Auld Lang Syne, – il tradizionale canto d’addio scozzese (oggi banalmente decorticato della sua compostezza funeraria e trasformato in un inno per festeggiare il Capodanno) – dicono tutto di questo lungo commiato.

E ora che Boris Johnson ha mano libera, quale sarà il volto vero del Regno Unito post-Brexit? Quale la sua vocazione internazionale, quali le sue scelte geopolitiche, le sue alleanze, le sue aspettative, i suoi appetiti? Anch’egli, come Ursula von der Leyen proclama sicuro: «Non è una fine, è un nuovo inizio».

Di certo è la fine di quarantasette anni di convivenza forzata e tre anni di turbolenze, di imboscate, di piccole e grandi miserie dentro e fuori il Parlamento. Oggi quello che un tempo fu un impero mondiale è nelle mani del biondissimo ex sindaco di Londra, il quale non fa mistero di riconfermare quella special relationship con il cugino americano e fare del blocco anglosassone una mosca cocchiera con cui tutte le grandi potenze – dalla Cina, alla Russia, all’India, al Giappone, all’Europa stessa – dovranno fare i conti.

Il rischio per noi orfani europei – ma anche per gli stessi inglesi – è quello di un neo-isolazionismo, un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando all’indomani della fine della Grande Guerra Washington e Londra stavano alla finestra, mentre il mondo si avvitava nei totalitarismi del fascismo e del comunismo.

Un pericolo che s’intravede anche oggi con il proliferare delle democrazie autoritarie, cui si va aggiungendo la possibile osmosi fra due campioni del populismo moderno come Trump e Johnson. Ma forse il traguardo dell’inquilino di Downing Street è ancora più ambizioso: far tornare l’Inghilterra regina se non proprio dei mari (Britannia rule the Waves è ancora la marcia patriottica più eseguita e famosa) per lo meno del mercato. E pazienza se l’amico Donald Trump si irrita per la decisione inaspettata di Boris di adottare il temutissimo 5g cinese di Huawei: l’«eccezionalità britannica» è anche questo. E nessuno come lo scaltro improvvisatore Boris Johnson sa interpretarla al meglio.

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