martedì 6 febbraio 2024
Il 6 febbraio di un anno fa le scosse che devastarono il sud-est della Turchia e il nord della Siria. La direttrice della scuola armena: i giovani non vogliono più stare qui, partono tutti
Aleppo, un anno dopo il sisma la vera sfida è costruire speranza

REUTERS

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«I ragazzi non vedono più futuro in Siria» e adesso «tutti vogliono partire» spiega Carolina Yazi, direttrice italo-siriana della scuola dell’ Esarcato cattolico armeno di Aleppo. Per lei, una laurea a Bologna e il ritorno in Siria nel 2009, la sfida è di restare.

Restare dopo la scossa che, alle 4 e 17 del 6 febbraio di un anno fa, devastò il sud est della Turchia e il Nord della Siria. Una catastrofe – dopo quasi 13 anni di guerra civile – che provocò 6 mila morti in Siria dove furono 8,8 milioni le persone colpite in vario modo dal sisma, 350mila gli sfollati, 28mila gli edifici distrutti o danneggiati. Ancora più pesante il bilancio in Turchia, dove si localizzo l’epicentro del peggiore terremoto dopo quello del 1999 nella regione del Mar di Marmara e quello di Erzincan nel 1939.

«Sulla nostra scuola l’impatto è stato enorme: nel 2021 i ragazzi erano 400, mentre oggi ho solo 242 alunni», spiega Carolina: le famiglie che possono vanno in Canada, America e Germania. Tutte in cerca di un futuro non migliore, ma semplicemente possibile perché «la situazione economica siriana va sempre peggio». Con uno stipendio medio che vale 15 euro è impossibile pagare la retta per la scuola dell’Esarcato che si accontenta di raccogliere almeno un quarto di quanto dovuto per pagare gli insegnanti. «Comunque lo scopo della nostra scuola è, al tempo stesso, di “trattenere” il più possibile i nostri ragazzi, perché la Siria non si svuoti completamente di giovani». Difficile immaginare un futuro in Siria, a maggior ragione dopo il sabato nero del 7 ottobre scorso: «Anche la situazione fra Gaza e Israele ci spaventa molto». Carolina Yazi, direttrice della scuola sostenuta da un progetto di Caritas italiana, ricorda il detto siriano secondo cui se un Paese vicino ha l’influenza, anche noi cominciamo a starnutire: «Siamo un popolo in mezzo al fuoco e lo siamo sempre stati», conclude.

Sempre ad Aleppo, subito dopo le scosse avvenute in una notte di pioggia gelida, i Fratelli maristi decisero di aprire la loro scuola diventata nel giro di poche ore un centro di accoglienza: «Ci siamo subito mossi con le nostre voci a chiedere solidarietà e di togliere le sanzioni contro gli aiuti umanitari», afferma Bahjiat Azrie, psicologo e responsabile del progetto di sostegno psicosociale Seeds dei Maristi blu. Un momento di grande solidarietà con «ricchi e poveri, cristiani e musulmani che si sono trovati a vivere insieme» nella scuola per settimane. Ma la distruzione è ancora ben visibile ad Aleppo, dove dopo la prima grande ondata di aiuti, afferma un comunicato della Fondazione marista solidarietà internazionale, «la situazione rischia di essere molto difficile nel medio e lungo termine». La maggior parte degli edifici crollati durante il terremoto erano già gravemente danneggiati e tuttora non possono essere ricostruiti o consolidati a causa della mancanza di risorse locali ma anche perché «ogni opera di ricostruzione finanziata dall’estero è vietata dalle sanzioni». Un anno fa il bilancio, nella sola Aleppo, fu di 458 morti, più di mille feriti, 60 edifici crollati e completamente distrutti, centinaia di edifici non riparabili da abbattere, migliaia ancora gravemente danneggiati nelle fondamenta e nelle mura portanti con migliaia di persone che non vivono più nelle loro case. Anche se dall’esterno sembrano intatti, molti edifici non sono abitabili perché le fondamenta o i vani scala o i muri portanti sono danneggiati nel profondo.

Un dolore il ricordo di quella notte che ha bloccato le vite di tutti gli abitanti di Aleppo, e che oggi non si è dissolto: «I bambini di Aleppo oggi sono senza una casa, la maggior parte di loro è priva di un luogo in cui poter crescere in modo sano ed equilibrato» spiega Azrie. Crepe nei muri, ma anche crepe nell’anima di Aleppo: «Ci sono tante crepe dentro di noi: le nostre fragilità. Abbiamo bisogno di vivere insieme, non semplicemente di convivere. La fraternità è ciò che si unisce, nonostante le distanze e le differenze», conclude il responsabile dei Maristi blu. Un anno dopo, lavori in corso per ricostruire la speranza.

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