Uomini come pedine
Al Festival di Mantova dello scorso anno il dramma, tutto cinese, del «figlio unico obbligatorio», causato da oltre trent’anni di sciagurata politica demografica, si affacciò sulla scena grazie al romanziere francese Eric Emmanuel Schmitt. Ne “I dieci figli che la signora Ming non ha mai avuto” il protagonista, inizialmente riluttante, accoglie il figlio della sua compagna, una volta conosciuta, durante un viaggio in Cina, la signora Ming, il cui desiderio di maternità era stato ripetutamente e brutalmente impedito da una legislazione crudele. Qualche anno prima, a misurarsi con la delicatissima tematica del figlio unico era stato, con “La rana”, il principale scrittore cinese contemporaneo, Mo Yan, autore di romanzi famosi, tra cui il celebre “Sorgo rosso”, portato sul grande schermo da Zhang Yimou. Il titolo del libro, con amara ironia, allude alla formidabile capacità riproduttiva della rana. Ebbene, stando a quanto deciso ieri dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, il massimo organo legislativo cinese, la legge del figlio unico – almeno come la conosciamo oggi – diverrà presto un ricordo. E con essa, vogliamo sperare, finirà il tragico corollario di abusi, violenze psicologiche e fisiche, aborti imposti con i quali le autorità hanno applicato una tra le norme più odiate. Pechino ha deciso, sulla scorta di pressioni dal basso sempre più forti, che è tempo di mitigare una legislazione che sarebbe eufemistico definire severa: un pacchetto di norme il cui merito – agli occhi dello Stato – è di aver 'risparmiato' circa 400 milioni di nascite nell’arco di pochi decenni. La riforma in cantiere prevede la possibilità per i genitori di generare un secondo figlio, se risiedono in uno dei grandi centri urbani del Paese e a patto che, nella coppia in questione, almeno uno dei due coniugi sia figlio unico (oggi il 'privilegio' è riservato alle sole coppie composte da due figli unici oppure alle minoranze etniche).
Nella medesima seduta il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo ha formalizzato un’altra novità, già decisa a novembre dal Comitato centrale del Partito comunista cinese: l’abolizione del sistema dei 'campi di lavoro' (i famigerati laogai). Anche in questo caso, andrebbe in pensione, perché anacronistico oltre che oltraggioso della dignità dell’uomo, un altro pezzo dell’eredità maoista: il sistema della cosiddetta 'rieducazione attraverso il lavoro'. Di conseguenza verrebbero liberati tutti coloro che vi sono internati: 160 mila detenuti che, secondo i calcoli più prudenti, sarebbero richiusi in 260 campi. Nei laogai attualmente finiscono spesso dissidenti politici o personalità religiose, arrestati per vari motivi e mai condannati da una corte. Anche in questo caso, siamo di fronte a una piaga denunciata, da anni, da alcuni attivisti cinesi: su tutti Harry Wu, un dissidente che ha passato lunghi anni nei laogai e ne ha documentato la brutalità. Le due notizie citate – revisione della legge sul figlio unico e chiusura dei laogai farebbero pensare a un radicale cambio di paradigma nella politica sociale cinese. Ma le cose non stanno esattamente così. Che i mandarini di Pechino non abbiano perso il vizietto di organizzare esperimenti sociali – anche su vasta scala – in ossequio ai dettami del Partito e alle «esigenze della patria», lo dice l’ambizioso, quanto mostruoso, esodo forzato che si annuncia per i prossimi anni: il trasferimento di circa 250 milioni di contadini nelle medie città del Paese. Un’enorme iniziativa di ingegneria sociale volta ad assicurare l’aumento dei consumi interni per stabilizzare l’economia, assicurando così alle autorità sonni tranquilli per il futuro. L’operazione, giurano a Pechino, verrà condotta con metodi più soft delle deportazioni forzate del passato. Rimane, tuttavia, un problema irrisolto: quello di un grande Paese, sempre più protagonista sulla scena internazionale, che nella politica interna usa i cittadini come pedine di un “grande gioco” condotto dai vertici.
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