Sulla vita e sulla morte serve un diritto mite. E un Paese unito

La legge 219, quella sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, è un modello a cui guardare, nei giorni in cui si torna a parlare di suicidio assistito. Perché introduce un metodo condiviso
July 25, 2025
Sulla vita e sulla morte serve un diritto mite. E un Paese unito
Le idee sulla vita, in una società in grande trasformazione, di solitudini e paure crescenti, cambiano. Eutanasia, suicidio assistito, morire con dignità, dolore e modi per combatterlo: nel dibattito pubblico milioni di storie diverse, però, è come se diventassero una, quella del momento. Ma non è così. Può aiutarci riguardare la legge 219/2017, quella sulle Dat, la “grande sconosciuta”. È una legge di diritto mite, che non norma tutto ma offre strumenti per umanizzare il morire senza chiamare la morte. E combatte il dolore, il grande nemico, fino a renderlo un obbligo di stato. Per dare al paziente la parola decisiva senza togliere al medico la sua responsabilità. Fosse stata in vigore già nel 2009 Eluana Englaro avrebbe continuato a vivere e Piergiorgio Welby avrebbe potuto rifiutare legalmente il sostegno vitale senza dover passare per una morte spettacolarizzata in un Paese diviso. Sulla vita e sul morire il Paese andrebbe ricucito e non diviso.
Eutanasia, buona morte, morte con dignità. “Lasciatemi andare” e “fatemi andare”: domande così umane sembrano uguali, ma non lo sono: la linea tra le due è sottilissima. Ancora più difficile è tracciarla per legge. Perché quello che per alcuni non è più vita, “ma che è vita questa, prigionieri di un corpo bloccato e attaccato a una macchina?”, per altri può essere un tempo diverso, pieno di prove, ma anche, a volte, un incredibile tempo di relazione, tenerezza, comprensione di sé e degli altri anche quando di vita ce ne sta pochissima, rimasta nelle dita o negli occhi. La spettacolarizzazione di una morte può creare grande partecipazione in un tempo in cui davanti a milioni di innocenti che muoiono e di anziani soli come naufraghi non si prova più niente, assuefatti.
Ma è sempre sbagliato fare leggi sulla spinta delle emozioni – e arrivano a cadenza regolare, nove volte in sette anni – e sui casi estremi. La Corte ha invitato a colmare una assenza, non per introdurre il suicidio assistito, ma per dare la possibilità di non sanzionare chi assecondi, in casi molto circoscritti. Su questo non ci possono essere vincitori e vinti, perché un metodo “muscolare” lascia solo vittime.
Si chiede di morire perché si soffre. La legge 38 sulle cure palliative è del 2010. E nel 2017 abbiamo sancito il dovere del Ssn di fornire una adeguata terapia del dolore anche a chi rinunci alle cure e voglia tornare a casa da un ospedale. Non lasciare soli nella disperazione del dolore è un obbligo della società. Come lo sono per i cristiani il rifiuto tanto dell’accanimento che della desistenza terapeutica. I cristiani in Italia non sono il partito del dolore. Ma il diritto alle cure palliative, a essere protetti dal dolore, che riduce la paura e la domanda di “farla finita”, non è ancora per tutti: è una priorità nazionale, ancor prima che normare alcuni casi complessi e, per fortuna, casi-limite e limitati.
Si chiede di morire anche perché non ci si piace più, non ci si “riconosce” più, e quella non sembra più “vita”. Questo dipende molto dalla cultura che si ha, la vita che si è fatta, gli altri attorno. Per alcuni è insopportabile, per altri, è un pezzo di vita prezioso in un altro modo, se diventa relazione. Una società che aborre la dipendenza dall’altro e ha poche parole sulla malattia, ne ha tante, invece, sul wellness, l’efficienza, la non dipendenza, mentre siamo sempre più interdipendenti: e così si delega allo stato quello che dello stato non è.
La legge 219 umanizza il morire quanto si può, favorisce la riduzione dell’isolamento e alimenta una cultura dell’accompagnamento. Ricostruisce l’alleanza medico-paziente. Sancisce, a fronte di un decorso invalidante e a una prognosi infausta, la “pianificazione condivisa delle cure” tra medico e paziente, che arriva fino alla zona grigia, alla soglia del morire. In questa alleanza c’è il margine per umanizzare il morire. Senza spettacolarizzazione, senza amministrazione burocratica della morte.
E i sanitari, anche in caso di perdita di coscienza o in assenza di un fiduciario, sono tenuti a rispettare quella volontà. Essere informati in dettaglio sull’evoluzione anche invalidante della malattia è un diritto, ed è tempo di cura: è il contrario del consenso informato delle crocette da mettere su un modulo da una medicina difensiva.
L’art.2 al comma 5 della legge 219 contiene un passaggio decisivo di cui tanti non sono a conoscenza: «Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente». Una norma che aiuta a morire, ma in prossimità del morire, e quando la terapia del dolore non si riveli efficace. Quell’articolo aggiuntivo (mio, accolto dalla relatrice Lenzi, sottoscritto anche da Gigli) è stato approvato con solo 4 voti contrari. Un punto di arrivo e di ethos nazionale condiviso. Dopo due legislature e sedici nuovi testi, prove di forza e nessun risultato. Metodo costituente, condivisione, allora. Ne guadagneremo tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA