Riflettiamo su cos'è il carcere: espiazione o occasione per rinascere?
L'aumento dei suicidi, le condizioni indegne degli istituti penitenziari, gli agenti di custodia insufficienti: bisogna trovare il modo per agire subito, ripartendo dall'idea di giustizia

Come tutte le estati, anche in questo periodo si torna a parlare della situazione nelle carceri. È una situazione insostenibile per vari motivi. I detenuti in troppi casi sono rinchiusi in spazi ridotti, gli agenti di custodia sono in numero insufficiente, gli edifici adibiti a prigione risultano sovente inadeguati. Non stupisce quindi il fatto che periodicamente esplodano ribellioni o che la rabbia, la frustrazione, la disperazione accumulate vengano rivolte contro di sé. L’aumento dei suicidi nei penitenziari italiani – una tragedia a cui “Avvenire” ha dedicato diverse inchieste, anche raccontando le storie personali di chi non ce l’ha fatta – è un segnale terribile, che deve farci non solo pensare, ma agire: agire subito.
Per agire in maniera efficace e giusta, però, bisogna anzitutto riflettere sulla funzione del carcere. Bisogna decidere se esso è solo il luogo in cui si espia una colpa, attraverso la reclusione di chi l’ha commessa, oppure se è anche, e magari soprattutto, un’occasione per riabilitarsi. È chiaro che non ci può essere una trasgressione senza punizione: è il modo per ripristinare relazioni equilibrate all’interno della società. Ma è altrettanto chiaro che la punizione non può esaurirsi in se stessa. Se fosse così, sarebbe qualcosa di sterile. Sono sterili, infatti, sia il macerarsi puro e semplice nella mortificazione per ciò che d’irreparabile è stato fatto, sia la volontà di vendicarsi del dolore che è stato inflitto. Se ci si ferma a questo non c’è sbocco, non c’è via d’uscita alla situazione provocata da un male fatto o subìto. Questo male, certo, è per molti aspetti irreparabile.
La vittima di un omicidio non ritorna in vita; chi è stato oggetto di violenza ne porta il segno per sempre. Ma, ripeto, limitarsi all’espiazione del gesto compiuto non basta, ripagare della stessa moneta chi ha fatto un torto non porta a nulla. Bisogna invece trovare il modo, per quanto possibile, di ripristinare le relazioni e di reinserire chi ha fatto del male in quella rete di legami che proprio lui (o lei) ha spezzato. Ecco la differenza tra la vendetta e la giustizia. Per farlo non bastano certo le parole.
Ci sono azioni che, anche nell’attuale condizione di carenza strutturale che il carcere conosce, possono essere concretamente compiute. Si tratta ad esempio di specifiche attività di formazione. In esse non conta solo ciò che viene insegnato. Conta soprattutto quanto viene veicolato con tali attività. Da sette anni sono coinvolto al carcere di Lugano in una serie di corsi di comunicazione consapevole organizzati dall’Ufficio Assistenza Riabilitativa del Canton Ticino, in collaborazione con la Facoltà di Teologia dell’Università della Svizzera Italiana. Lo scopo dei corsi è di aiutare chi li sceglie a gestire comunicativamente i conflitti, evitando che le emozioni negative prendano il sopravvento e che i conflitti portino ad atti violenti. Ogni lezione comprende interazioni concrete e simulazioni, e si conclude con un esame finale. Come dicevo, l’importante in questi corsi è soprattutto ciò che passa attraverso il confronto fra docenti e studenti, e che viene messo in opera nelle relazioni degli studenti fra loro. Si tratta in particolare di due cose: rispetto e speranza. Rispetto significa riconoscere la dignità di chiunque, anche di chi ha sbagliato. Speranza vuol dire che per tutti c’è la possibilità di cambiare, che questa possibilità è reale e che il mondo non coincide con le mura di una prigione.
Basta provare a invertire la rotta: pur portando su di sé la responsabilità e il peso del passato. Se si configura in questo modo, la giustizia può contribuire davvero a riparare il male compiuto. Può non solo limitarsi a stabilire una punizione commisurata al reato commesso ma aprirsi al ripristino – anche secondo i percorsi che la legislazione italiana ha recentemente definito – di quelle relazioni positive che il colpevole ha distrutto. Certo, non è facile arrivarci. Le ferite inferte, spesso, sono ancora troppo dolorose. Chi chiede scusa non sempre è sincero, o non capisce fino in fondo ciò che ha fatto. Ma se il carcere non vuol essere solo il luogo in cui sconta una pena, cioè il posto in cui è rinchiuso – talvolta senza rispetto per la sua dignità – chi ha commesso un reato, bisogna scommettere sulla possibilità che un cambiamento vi sia. E bisogna anzitutto farglielo capire. Altrimenti continueremo a raccogliere, come purtroppo molto spesso oggi accade, solo le conseguenze della sua disperazione.
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