martedì 8 agosto 2023
La ventenne fa parte di una squadra di basket. Quando i taleban hanno scoperto che lei e le compagne si allenavano di nascosto, ha ricevuto minacce di morte. Poi la fuga
Una donna afghana riceve aiuti alimentari dalla Malik Suleiman Charity Foundation, a Kandahar l'1 giugno 2023

Una donna afghana riceve aiuti alimentari dalla Malik Suleiman Charity Foundation, a Kandahar l'1 giugno 2023 - Archivio Ansa

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Una mail da Peshwar, in Pakistan: «Abbiamo bisogno di raccontarvi, scrivete la nostra storia». Così si riapre il quaderno degli appunti chiuso lo scorso aprile: Najma aveva raccontato di sé, di come si viveva da donne e da atlete nella Kabul ormai sotto il giogo degli estremisti. Poi aveva chiesto di non pubblicare nulla, perché i taleban avevano scoperto il luogo segreto in cui continuavano ad allenarsi. Najma ha 20 anni e fa parte di una squadra di basket femminile di Kabul, e a seguito di un'intervista sull'Independent aveva ricevuto minacce molto esplicite. «Hanno giurato di farci sparire tutte nel caso avessimo continuato a divulgare informazioni sul nostro gruppo sportivo», aveva detto. Da quel momento per lei e le sue compagne sono cessati gli allenamenti, anche in segreto.

Fino a qualche giorno fa, quando con una email Najma ha voluto riprendere i contatti. Con un collegamento skype molto difficoltoso, Najma raccontare di aver lasciato, nel maggio scorso, Kabul, nascondendosi in un pullmino di calciatori. Ora lei e le sue compagne sono al confine col Pakistan. Da Kabul il suo fidanzato avverte di non tornare in città, perché sono ricercate. «Ci allenavamo col volto coperto, in segreto. Ma la nostra colpa, secondo il regime talebano, è di aver utilizzato liberamente il corpo. La corporeità e la bellezza femminile terrorizzano l’autoritarismo talebano. Abbiamo allenare il nostro corpo e questo nella loro visione è un grave peccato di lussuria, nonostante l’islam ufficiale non dica niente di tutto questo in relazione allo sport. I talebani ci hanno prese di mira: siamo giovani donne, che in parte hanno studiato privatamente; curiamo il nostro corpo, non abbiamo figli e alcune di noi sono omosessuali».

Najma continua: «Avevamo poco meno di 18 anni quando sono tornati al potere i barbuti e violenti taleban. Le nostre madri hanno avuto un'esperienza diversa: nelle città le donne avevano cominciato a guidare, ad ascoltare musica, a ricevere, in parte, un’istruzione superiore, un’educazione sportiva. Quando l’Occidente ci ha abbandonate, chi ha deciso di venire allo scoperto, sia perché omosessuale, sia perché praticava uno sport, ha vissuto una silenziosa persecuzione. Il mondo ha parlato dell'oppressione delle donne in Afghanistan, ma sapete che cosa vuol dire trovare scritte con minacce di morte nelle proprie palestre? Sapete che cosa significa vedere, sull’uscio di casa, il proprio nome e cognome barrato di nero? Vuol dire essere finiti in una specie di liste di proscrizione, in cui prima scatta la sorveglianza e poi si attua la scomparsa fisica concreta. Sono tante le donne scomparse. A Kabul, in particolare. Non se ne parla e non si contano. Nessuno le cerca, neanche i loro genitori».

«Oggi il mio Afghanistan - continua Najma - che era riuscito, per la prima volta, a raggiungere un tasso decente di alfabetizzazione, almeno fra la mia generazione dei 15-20enni, con un incremento del 54%, è già precipitato nel baratro. Non sarà più possibile, nell’arco dei prossimi trent’anni, arginare il buio della ragione. Possibile che non esista la parola infanzia in Afghanistan? Possibile che una mamma venda una bimba per 500 dollari per poter andare avanti, mentre gli altri figli si assoggettano a situazioni di schiavitù? Perché il mondo ignora tutto questo?». Una domanda senza risposta.

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