lunedì 27 febbraio 2023
Shazia aiutava le altre ragazze a trovarsi un un impiego. «Nella nostra cultura non ci si aspetta che le donne contribuiscano alle spese della famiglia. Lo stavamo facendo. Le cose stavano cambiando»
Kabul, donne in attesa per ricevere aiuti umanitari

Kabul, donne in attesa per ricevere aiuti umanitari - Ansa

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

A volte anche gli intoppi tecnici trovano un loro senso. Senza troppe formalità, la conversazione tra Milano e Kabul si era avvitata quasi subito sul tema del lavoro. Shazia – inglese perfetto, l’accento dari come un colore morbido solo sulle parole afghani e Afghanistan – stava parlando di sé con la ritrosia di chi non è abituato ad avere attenzione, casomai a dedicarla. «I am a jobless girl», sono una ragazza senza lavoro, aveva detto, presentandosi, come fosse una specie colpa per lei che, fino a poco tempo fa, incoraggiava le altre donne a studiare per cercarsene uno. C’era questo senso desolato di sconfitta nel suo tono, uno spazio in cui ha riecheggiato tutta la prevaricazione di un regime cui sembra impossibile opporsi. E c’era tutta la stanchezza, la disillusione, di chi è costretto a subire tutti i giorni. La linea è caduta. E mentre da Milano si ripristinava la connessione con Kabul, da Kabul Shazia ritrovava il contatto con tutto il coraggio che in quel Paese tocca metterci per pensare a un futuro. «Ma dovete far sentire la nostra voce – ha ripreso quando la call è ricominciata, con l’urgenza di chi sa riorganizzare in fretta la speranza –. Più di tutto, è il silenzio internazionale che ci disarma e ci umilia. Siamo pronte a reagire, un passo alla volta, ma non possiamo farlo da sole, e il lavoro è la prima emergenza».

Il "decreto taleban": le donne fuori (anche) dalle Ong

​L’Afghanistan ha un tasso di disoccupazione effettivo tra i più alti del mondo: secondo il Programma alimentare mondiale, il 98% delle persone non hanno un introito che permetta loro di sfamarsi. Il Paese è al 180esimo posto su 191 nell’Indice dello sviluppo umano. Tradotto da Kabul, significa questo: «Vivo con la mia famiglia, mia madre e i miei fratelli. Non ho figli perché non sono sposata. Non ho più un lavoro perché il progetto cui lavoravo con Nove Onlus (un programma di formazione professionale femminile sviluppato con il sostegno finanziario di WFP per avviare un’attività nel marketing, nel business online, nell’economia digitale) nel novembre scorso – quando il ministero dell’Economia taleban ha ordinato a tutte le Ong di non dare più lavoro alle donne – mi ha improvvisamente collocata nella lista dei “fuori legge”. Abbiamo dei risparmi, mi ritengo fortunata, ma non so per quanto ancora riusciremo ad andare avanti. E come noi, migliaia di altre famiglie. Vivere, qui, è ormai una sfida sul limite».

Amici, padri, fratelli: un regime oppressivo e una cultura millenaria

La domanda, inevitabile e insistente, cade sulla corresponsabilità degli uomini afghani. Non quelli che stanno al governo: quelli con cui condividi il pasto, la casa, le difficoltà. I padri, i fratelli, i mariti. Non si rendono conto? Non proteggono? Non aiutano? «Molti, sì, si rendono conto e vorrebbero un Paese diverso. Ma se provano a reagire, semplicemente vengono arrestati o ammazzati. Altri, soprattutto nelle zone tribali, che rappresentano la maggior parte del Paese, no, non si rendono conto affatto. Serviranno, forse, generazioni». Vent’anni di presenza occidentale sono stati un minuscolo frammento di una storia millenaria che probabilmente andava capita di più e accompagnata più a lungo. «Prendi il lavoro – spiega Shazia –: nella nostra cultura gli uomini della famiglia sono i soli che ne hanno uno. E non si aspettano che le donne partecipino alle spese. Ma qualcosa stava cambiando. Noi donne avevamo iniziato a contribuire, spesso diventando l’unica fonte di reddito. Un aspetto che cominciava ad avere importanti riflessi sul modo di vedere le cose, anche degli uomini. Nella mia famiglia nessuno mi ha mai chiesto di portare a casa dei soldi, ma io ho sempre voluto fare la mia parte: l’ho considerato un dovere. E un diritto. Come me, tante altre donne». Il 50% delle ragazze che hanno partecipato ai corsi di corsi di formazione di Nove erano riuscite a trovare lavoro in piccole attività commerciali. «Ora sono tutte a casa. Di nuovo totalmente dipendenti dagli uomini. Non possono lavorare. Non possono più studiare. In effetti, non possono più nemmeno curarsi quando stanno male, perché dottori, insegnanti, ingegneri, chiunque abbia fatto un percorso di studi se n’è andato».

Chi ha un titolo di studio se ne va. «Non io»

​Shazia un percorso di studi l’ha fatto, specializzandosi in gender studies. Ma ad andarsene non ci pensa neanche. «Questo è il mio Paese. Io sento il dovere di stare qui e provare a fare qualcosa. Non rinuncio a far sentire la mia voce in tutti i modi che posso. E credo che il mondo debba cominciare ad ascoltarci. Dovete farlo adesso. Dovete capire l’urgenza di mettere questo Paese sotto l’attenzione delle Nazioni Unite. Non avete idea della velocità con cui le cose stanno precipitando. Non avete idea di cosa potrà succedere se l’Afghanistan verrà dimenticato».

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