giovedì 4 aprile 2019
Intervista all'arcivescovo mandato da Roma ad amministrare la parrocchia balcanica conosciuta in tutto il mondo. «Colpito dalle molte conversioni e dalle tante confessioni»
Medjugorje (Ansa)

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«Medjugorje è il segno di una Chiesa viva». L’arcivescovo Henryk Hoser, polacco, una vita passata con incarichi in Africa, Francia, Olanda, Belgio, Polonia, da quindici mesi è inviato di papa Francesco nella parrocchia balcanica conosciuta in tutto il mondo per le presunte apparizioni mariane cominciate il 26 giugno 1981 e - secondo alcuni dei sei presunti veggenti coinvolti - ancora in atto. Ha appena terminato un’affollata catechesi ai pellegrini italiani, nella grande "sala gialla" utilizzata anche per seguire le liturgie in videoconferenza, perché la pur grande chiesa è diventata insufficiente.

Una "Cattedrale" sorta inspiegabilmente in una campagna disabitata, ben prima delle apparizioni...
È stato un segno profetico. Oggi arrivano pellegrini da tutto il mondo, da 80 Paesi. Ogni anno ospitiamo quasi tre milioni di persone.

Come fotografa questa realtà?
Su tre livelli: il primo è locale, parrocchiale; il secondo è internazionale, legato alla storia di questa terra, dove troviamo croati, bosniaci, cattolici, musulmani, ortodossi; poi il terzo livello, planetario, con arrivi da tutti i continenti, in particolare giovani

Rispetto a questi fenomeni, sempre abbastanza discussi, ha una sua opinione?
Medjugorje non è più un luogo "sospetto". Sono stato inviato dal Papa per valorizzare l’attività pastorale in questa parrocchia, che è molto ricca di fermenti, vive di un’intensa religiosità popolare, costituita, da una parte da riti tradizionali, come il Rosario, l’adorazione eucaristica, i pellegrinaggi, la Via Crucis; dall’altra dal profondo radicamento di importanti Sacramenti come, ad esempio, la Confessione.

Cosa la colpisce, rispetto ad altre esperienze?
Un ambiente che si presta al silenzio e alla meditazione. La preghiera si fa itinerante non solo nel percorso della Via Crucis, ma anche nel "triangolo" disegnato dalla chiesa di San Giacomo, dalla collina delle apparizioni (Croce blu) e dal monte Krizevac, sulla cui vetta dal 1933 c’è una grande croce bianca, voluta per celebrare, mezzo secolo prima delle apparizioni, i 1.900 anni dalla morte di Gesù. Queste mete sono elementi costitutivi del pellegrinaggio a Medjugorje. La maggior parte dei fedeli non viene per le apparizioni. Il silenzio della preghiera, poi, è addolcito da un’armonia musicale che fa parte di questa cultura, sobria, lavoratrice, ma piena anche di tenerezza. Vengono utilizzati molti brani di Taizè. Si crea, complessivamente, un’atmosfera che agevola la meditazione, il raccoglimento, l’analisi del proprio vissuto, e in definitiva, per molti, la conversione. Molti scelgono le ore notturne per salire al colle o anche al monte Krizevac.

Che rapporto ha con i "veggenti"?
Li ho incontrati, tutti. In un primo momento ne ho incontrati quattro, poi gli altri due. Ognuno di loro ha una sua storia, una sua famiglia. È importante, tuttavia, che siano coinvolti nella vita della parrocchia.

In che modo intende lavorare?
Soprattutto nella formazione. Certo, non è semplice parlare di formazione a persone che, con diversi tempi e modalità, testimoniano di ricevere messaggi da Maria da quasi 40 anni. Siamo tutti consapevoli di avere bisogno tutti, vescovi compresi, di formazione permanente, ancora più in un contesto comunitario. Una dimensione da rafforzare, con pazienza.

Vede rischi in questo accentuare il culto mariano?
No di certo. La pietas popolare, qui é centrata sulla persona della Madonna, Regina della Pace, ma rimane un culto cristocentrico, come anche il canone liturgico é cristocentrico.

Le tensioni con la diocesi di Mostar si sono attenuate?
Ci sono state incomprensioni sul tema delle apparizioni, noi abbiamo centrato i rapporti e soprattutto la collaborazione sul piano pastorale, da allora le relazioni si sono sviluppate senza riserve.

Che futuro vede per Medjugorje?
Non è facile rispondere. Dipende da tanti elementi. Posso dire cosa già é e come può rafforzarsi. Un’esperienza da cui escono 700 vocazioni religiose e sacerdotali indubbiamente rafforza l’identità cristiana, un’identità verticale, in cui l’uomo, attraverso Maria, si rivolge al Cristo risorto. A chiunque ci si confronti, offre l’immagine di una Chiesa ancora pienamente viva e in particolare giovane.

Può dirci in questi mesi cosa l’ha colpita di più?
La nostra è una chiesa povera, con pochi sacerdoti che si è spiritualmente arricchita grazie ai tanti preti che accompagnano i pellegrini. Non solo. Mi ha colpito un ragazzo australiano, alcolista, tossicodipendente. Qui si è convertito e ha scelto di diventare sacerdote. Mi colpiscono le confessioni. C’è chi viene appositamente qui anche solo per confessarsi. Mi colpiscono le migliaia di conversioni.

La svolta potrebbe avvenire anche da un riconoscimento di Medjugorje come delegazione pontificia?
Non lo escludo. L’esperienza dell’inviato della Santa Sede è stata accolta positivamente, come un segnale di apertura nei confronti di un’esperienza religiosa importante, diventata riferimento a livello internazionale.


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