sabato 8 maggio 2021
Non un giudice cristiano, ma un cristiano che faceva il giudice. Così il Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi presenta il nuovo beato. "Ucciso in odio alla fede perché incorruttibile"
Il cardinale Semeraro

Il cardinale Semeraro - Archivio Siciliani

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«Non un magistrato cristiano, ma un cristiano che faceva il magistrato». Il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, riassume in questa formula la personalità di uomo e di credente di Rosario Livatino. E in definitiva anche la sua santità. Il porporato oggi presiederà ad Agrigento la celebrazione eucaristica nella quale il magistrato ucciso nel 1990 dalla mafia, a soli 38 anni, verrà proclamato beato. E nei mesi scorsi ha studiato a fondo gli atti di una causa praticamente unica nel suo genere. Non solo per il fatto che, almeno in epoca recente, viene beatificato un magistrato, ma anche e soprattutto per la mutazione “genetica” che l’iter verso gli altari ha subito nel corso del suo svolgimento: da processo super virtutibus, a processo super martyrio.

Eminenza, che cosa ha determinato questa svolta?

Il punto qualificante della svolta fu determinato da quella che possiamo definire la coerenza piena e invincibile tra la fede cristiana e la vita. In una sua conferenza del 1984, parlando dell’indipendenza del giudice, egli disse che questa indipendenza non è solo «nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale...». In sostanza egli rivendicò in quella occasione l’unità fondamentale della persona, che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale.

Per questo lei afferma che era un cristiano che faceva il magistrato?

Sì, perché questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come martire.

Quali furono le testimonianze che indussero a virare verso la causa super martyrio?

Nel corso del processo canonico il postulatore, monsignor Vincenzo Bertolone, si rese conto per primo che la dimensione del martirio andava emergendo sempre più chiaramente. Del resto già il 9 maggio 1993, durante l’incontro con i genitori di Rosario, san Giovanni Paolo II, come è stato riferito da testimoni, lo definì «martire della giustizia e indirettamente della fede», espressione poi ripresa anche da papa Francesco in un suo discorso alla Centro Studi Livatino, nel novembre del 2019. Per questo, una volta accolta dalla Congregazione la richiesta di cambio del “lemma”, come si dice in gergo tecnico, tra dicembre 2019 e gennaio 2020 furono ascoltati altri 22 testimoni.

Che cosa emerse?

Emerse che nella sua uccisione fu decisivo il fatto che agli occhi dei mafiosi egli appariva inavvicinabile e incorruttibile proprio in ragione della sua condotta, riconducibile direttamente alla sua fede cristiana. «Era inflessibile, ma non era mai cattivo o ingiusto», dirà un testimone. Dalle deposizioni apparve chiaro che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. I suoi persecutori odiavano Cristo, esplicitamente riconosciuto e disprezzato nell’incorruttibile condotta del giudice Livatino. Lo denigravano, per questo, come «santocchio». Un altro teste ha dichiarato: «In Livatino non vi era confine tra professione e il suo essere uomo di fede. Il suo essere cristiano traspariva dal suo essere magistrato».

E Livatino era consapevole di questo odio?

Sì, lo diventò ben presto. Continuò, tuttavia, serenamente il suo quotidiano lavoro conservando la fiducia in Dio e dando con semplicità pubblica testimonianza della sua fede mediante l’amministrazione fedele e professionalmente qualificata della giustizia. L’intimo e conseguente rapporto tra fede e vita appare in lui in forma davvero esemplare. Come si evince dalla frase che opportunamente gli viene attribuita: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Come possiamo dunque qualificare la sua santità?

Ritengo davvero che per lui si potrebbe anzitutto fare riferimento a quella che, nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, papa Francesco ha chiamato «la santità della porta accanto» o, per usare un’altra espressione, «la classe media della santità». Durante il processo è chiaramente emerso che il «martirio formale» subìto da Livatino ha il suo background nel suo vissuto virtuoso: durante la vita operò sostenuto dal costante riferimento a Dio e da un’autentica fiducia nella sua presenza. Tanto è vero che apriva i suoi scritti - e pure la sua tesi di laurea - con l’acronimo «S.T.D.», cioè sub tutela Dei. Anche quando ricevette le prime minacce di morte, non venne mai meno la sua fiducia nella «custodia di Dio».

In definitiva qual è la sua eredità spirituale?

Mi piace pensare all’esercizio della mitezza evangelica, che altro non è se non la «povertà nello spirito« della prima delle Beatitudini, colta nella sua connotazione di adesione gioiosa alla volontà e alla legge divina. Il modello cioè è Cristo stesso «mite e umile di cuore». Una virtù testimoniata fino alla morte. L’ultima espressione uscita dalla sua bocca davanti ai suoi uccisori, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, è «Picciotti, che vi ho fatto?». Un’espressione che ricalca quella la liturgia del Venerdì Santo pone sulle labbra del Crocifisso («Popolo mio, che cosa ti ho fatto?»), non è un rimprovero e neppure una sentenza di condanna, ma un invito dolorante a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, a convertirsi.

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