Saman e le altre: cresce l'impegno contro la segregazione

di Diego Motta Inviato a Novellara (Reggio Emilia)
Viaggio a Novellara, dove sono le donne ad aiutare altre donne. Il tema dei matrimoni forzati e i percorsi per combattere l'omertà dei clan familiari
October 5, 2025
Saman e le altre: cresce l'impegno contro la segregazione
Un laboratorio dedicato a donne italiane e straniere sui temi dell'interculturalità a Novellara
Nella terra in cui è morta Saman, la lotta per l'emancipazione femminile resta la vera battaglia da combattere. Lo era prima, a Novellara, Comune del reggiano di 13.500 abitanti, che da trent’anni ospita comunità di stranieri provenienti dal Pakistan, dall’India, più recentemente dalla Turchia. Lo è adesso, che i processi per la morte della giovane pachistana uccisa a seguito di un piano ordito dalla sua stessa famiglia, hanno svelato al resto d’Italia i contorni di un fenomeno già conosciuto da queste parti: quello della segregazione della donna, vittima di clan familiari che rispondono alle regole arcaiche di culture lontane, quello dei matrimoni combinati che sembra un reperto storico nel nostro Paese eppure qui silenziosamente prosegue.
Settimana scorsa ha fatto scalpore il caso di una ragazza di Rimini, di origini bengalesi, costretta alle nozze combinate, che poi è riuscita a ribellarsi al suo destino grazie al ritorno in Italia. A salvarla è stata un’operazione coordinata dai carabinieri di Rimini, significativamente chiamata “Saman 2”, a testimonianza del fatto che il pericolo di nuove storie del genere non è affatto scongiurato. Ma quanti casi sommersi, di questo tipo, ci sono ancora? È un terreno, quello complicatissimo dell'uscita dal silenzio e dall'omertà, che vede protagoniste altre donne di questo territorio.
Donne che aiutano altre donne. Una di queste è l'ex sindaca del paese, Elena Carletti, oggi consigliere regionale del Pd. «Ricordo quella mattina, la chiamata del comandante dei carabinieri. Capii subito che per noi sarebbe stata una cosa deflagrante, una tragedia destinata a cambiare la nostra storia». Di fianco a lei, nel bar a pochi passi dal Comune che Carletti ha guidato fino a un anno fa, ci sono Erica Tacchini, referente per i progetti culturali e interculturali del Comune di Novellara, e Kiranjit Kaur, detta Kimmi, una ragazza di origine indiana oggi cittadina italiana, che fa l'insegnante di sostegno in una scuola elementare e si è trovata a fare da mediatrice culturale in questi anni, tra tanti suoi connazionali e il paese che li ospita. Così ha conosciuto le storie di tanti ragazzi e ragazze che spesso arrivano dagli stessi contesti di Saman.
«La condizione della donna in questi contesti è un tema delicatissimo e difficilissimo da affrontare - raccontare Kimmi -. Dipende molto da famiglia a famiglia, dalla classe sociale in cui si vive, dal tipo di percorsi che si fanno. Sono comunità, quelle che ho incontrato, in cui conta di più la comunità e la famiglia, rispetto all'individuo». Quante Saman ci siano ancora in queste terre e che rischi corrano, è domanda a cui non si può rispondere con certezza, numeri alla mano. «Segnalazioni e richieste d'aiuto come quelle che sono arrivate anche questa settimana da Rimini continuano spiega Carletti dal suo osservatorio regionale - ma il punto vero è arrivare a denunciare. Arrivare a mettersi contro i propri genitori per potersi salvare la vita richiede coraggio, anche perché tante ragazze non vorrebbero che padri e madri poi finissero in carcere. Dicono: io non voglio sposarmi, ma non voglio neppure che i miei genitori finiscano sotto processo».
Per Erica Tacchini, «serve davvero una rete per evitare che queste giovani finiscano in trappola. Una rete fatta di altre persone: compagne di classe, insegnanti, amici, mediatori culturali. Non basta un centro antiviolenza per fare prevenzione, perché lì si affronta solo l'emergenza». Prima c'è appunto la logica del clan, il ricatto familistico e mafioso di cui è stata vittima Saman. «Occorre distinguere - riprende Kimmi - tra matrimonio combinato e matrimonio forzato. Il matrimonio combinato esiste anche nel mondo indiano. Ho un'amica il cui marito è stato deciso dai genitori. Io le ho detto che non ero d’accordo. Abbiamo discusso a lungo, per me doveva fare una scelta libera. Lei mi ha risposto che era felice e io ho dovuto accettare. C'è una visione patriarcale dietro tutto questo, in cui l'uomo comanda e la donna si adegua. È una visione che combatto, ma che in queste comunità resiste nonostante tutto. Altro conto è la violenza, l'imposizione con la forza».
Racconta l'ex sindaca Carletti di aver seguito il caso di un’altra ragazza ricondotta con un imbroglio in Pakistan, dove avrebbe dovuto sposare un uomo scelto dalla famiglia. «Ci siamo attivate con l'ambasciata, l'abbiamo rintracciata e fatta tornare in Italia. Lei si è salvata, ma quante altre storie del genere non riusciremo mai a intercettare? » si chiede. Nell’oscurità delle nozze imposte, ci sono addirittura atti matrimoniali fatti al telefono: la donna dice sì tre volte a un uomo deciso da altri, che magari si trova in Pakistan. Mesi dopo, in Comune viene recapitato il certificato di matrimonio. Le crisi e i drammi familiari si verificano quando la parte fragile si accorge della trappola e si ribella: allora scatta la violenza. «Ci sono magari anche unioni coniugali che riescono, per carità, ma più spesso la donna finisce in isolamento. Non parla italiano, non comunica più e sparisce dai radar».
Ecco, il peso dell’insegnamento della lingua italiana è cruciale. Più in generale, lo è l’alfabetizzazione di queste persone, che altrimenti scontano ritardi irrecuperabili. «Uno dei punti su cui abbiamo insistito in questi anni è stato proprio il lavoro sulla lingua madre, con corsi in arabo proposti dal centro interculturale, perché abbiamo scoperto che tanti ragazzi non parlavano più la lingua originale dei genitori – continua l’ex sindaca di Novellara -. Se ti trovi davanti gente analfabeta rispetto al proprio contesto di provenienza, il primo segnale devi darlo su quel versante. Poi sull’apprendimento dell’italiano, abbiamo affiancato le attività dei Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, con investimenti e strumenti nuovi, partendo dal coinvolgimento di insegnanti in pensione che venivano volontariamente al centro a fare lezione».
Il ruolo di Kimmi è stato fondamentale. «Serviva una figura a scuola che fosse in grado di parlare urdu e punjabi. Io conosco entrambi e, per tante donne che erano tentate di chiudere la porta con la scuola, sentirsi dire le cose nella propria lingua ha fatto la differenza – spiega la giovane di origine indiana -. Ci è voluto tempo ma i pregiudizi poi sono caduti, anche con gli uomini». La scommessa adesso è che crollino altri muri, quelli della discriminazione e del razzismo strisciante, i primi da abbattere se si vuole una società realmente inclusiva. E le differenze religiose? Contano, ma non troppo. La famiglia di Saman non era praticante e non frequentava il tempio sikh di Novellara, il più grande d’Europa, inaugurato nel 2000 dall’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi. «L’ìnduismo è una fede riconosciuta, altre confessioni non lo sono – dice Carletti -. Quando penso alle comunità presenti sul territorio, mi rendo conto che servono luoghi aperti alla cittadinanza, in grado di dare il giusto peso alle diverse fedi, senza ghettizzarle o enfatizzarle. Non vanno cercate soluzioni all’insegna della sicurezza, ma spazi in cui si possano condividere momenti sportivi, attività ricreative e di socialità».

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