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Il carcere Beccaria - IMAGOECONOMICA
Il confronto politico e sociale, così come purtroppo la cronaca, non smettono di portare al centro del dibattito pubblico il tema delle carceri. La condizione della detenzione in un Paese dalla solida tradizione democratica e con uno spiccato senso dell’etica collettiva non può limitarsi all’analisi – per quanto rilevante – dei fenomeni dal punto di vista numerico. I dati – sebbene non esaustivi – testimoniano che il nostro sistema carcerario registra circa 61mila persone in stato di detenzione, la metà dei quali stranieri, e il 4,3% donne: ciò a fronte di una capienza delle strutture di circa 51.700 posti. Dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane circa 6 mila usciranno dallo stato di detenzione entro un anno, e il 35,7% ha un fine pena al più pari a 4 anni.
Occorre anche aggiungere che nel 2024 si sono verificati 89 suicidi di detenuti oltre a 7 agenti. Su questi numeri si sviluppa il confronto fra l’opposizione e la maggioranza di governo che ha recentemente annunciato il proprio impegno per rendere disponibili 7mila nuovi posti nelle carceri nel prossimo triennio. Occorre – ad avviso di chi scrive – superare la logica dei freddi numeri per accogliere un approccio che sia all’altezza della delicatezza e complessità del tema.
La prima questione a venire in rilievo in una visione costituzionalmente orientata sembra quella del rapporto fra lavoro e stato di detenzione: non però nell’accezione puramente economicista che si rifà al filone del lavoro carcerario obbligatorio sottoremunerato a vantaggio di imprese private, o dei lavori socialmente utili, ma nel senso di un legame con la funzione rieducativa della pena e alla dignità della persona attraverso il lavoro. In questa logica il lavoro può e deve rappresentare la leva perché la detenzione svolga la funzione rieducativa che la Costituzione gli riconosce, ma anche come strumento di riscatto sociale e di recupero dei valori etici che presiedono alla vita nella nostra società. Non deve essere dimenticata la dimensione economica e di pubblico interesse del lavoro, sicché esso non rappresenti solo la vittoria o la via di redenzione del lavoratore contro i propri errori del passato, ma anche uno strumento utile al mercato del lavoro e quindi alla collettività.
In questo senso, un modo di rappresentare questi percorsi virtuosi potrebbe essere quello di considerare quel 35,7% di detenuti che nei prossimi 4 anni avranno finito di scontare la pena, come un bacino utile per fare fronte al mismatch di competenze o alla situazione di people scarcity che affligge il nostro Paese, specialmente in alcuni settori – ad esempio quello turistico alberghiero e della ristorazione –, e in particolari periodi dell’anno.
Il progetto sarebbe affascinante e meritevole di tutta l’attenzione della società e della politica; ma richiede altresì un sano realismo, affatto contrario alla dottrina sociale dele Chiesa: a tal proposito dovendosi tenere in adeguata considerazione, da un lato, la domanda di sicurezza che proviene dai cittadini, e dall’altro le oggettive difficoltà che s’incontrano nel ricollocare in maniera ottimale una quota significativa della popolazione carceraria.
In sintesi, il punto di partenza di questo percorso sta nel valorizzare in senso costruttivo il rapporto fra stato detentivo, formazione e lavoro; nella consapevolezza che la sfida potrà vincersi solo considerando questa parte della società come una risorsa.
Consigliere esperto Cnel