venerdì 22 settembre 2023
Il cardinale racconta gli incontri e gli interessi comuni con il presidente, che aiutano a comprenderne la personalità. Quel suo intervento ad Assisi
Il presidente Giorgio Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi

Il presidente Giorgio Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi - Ansa

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Era il 25 aprile 1998 e in quel periodo rivestivo la funzione di prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. L’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano era in città per le celebrazioni della Liberazione e aveva espresso il desiderio di visitare quell’istituzione fondata agli inizi del ’600 dal cardinal Federico Borromeo. In quell’occasione al ministro mostrai una sorta di reliquia “laica” là custodita, l’autografo del testo “Dei delitti e delle pene” (1764) di Cesare Beccaria, le cui pagine fitte di correzioni, ripensamenti e persino di macchie d’inchiostro rivelavano il travaglio dell’elaborazione da parte del suo autore.

L’interesse e l’emozione di Napolitano nello sfogliare quelle pagine erano evidenti. Da quel momento in avanti si stabilì una sorta di filo di amicizia implicita, sia pure con la diversità delle funzioni e delle visioni generali. Le consonanze si moltiplicarono, così come i contatti, anche telefonici, e si intensificarono col mio approdo a Roma come capo-dicastero vaticano della Cultura nel 2007. Nel frattempo si era inserita una componente originale, il legame autentico e profondo del presidente col papa Benedetto XVI.

Al riguardo, vorrei scegliere qualche evento culturale, di cui sono stato testimone. Si era deciso da parte delle autorità italiane di dedicare a papa Benedetto XVI l’edizione facsimile di un incunabolo latino della Biblioteca Apostolica Vaticana datato 1490 e intitolato “De Europa”. Autore era Enea Silvio Piccolomini, che era poi salito al soglio pontificio col nome di Pio II. Era un tema molto caro al papa e al presidente (che era stato europarlamentare), anche per un aspetto allora contestato ma di valore indiscutibile, quello delle radici cristiane dell’Europa. Ricordo ancora che – in occasione della consegna dell’opera – Napolitano aveva citato a Benedetto XVI un passo di Thomas Mann: «Il cristianesimo rimane una delle colonne portanti dello spirito occidentale, e l’altra è l’antica cultura mediterranea».

Come corollario a questo episodio, mi viene spontaneo ribadire le nostre molteplici consonanze letterarie, anche perché il presidente era un vero umanista, dotato di una straordinaria vastità e profondità di letture persino filosofiche. Cito solo, a livello supremo, la figura di Dante Alighieri. Quando io avevo concluso il mio incarico di presidente della «Casa di Dante» di Roma e Napolitano era tornato alla funzione di senatore a vita, egli fu lieto di accogliere l’invito caloroso a presiedere quella sede importante di studi danteschi, forte della sua passione per il poeta.

Ho ancora davanti agli occhi, sulla scrivania del suo studio di senatore a Palazzo Giustiniani, il testo della Divina Commedia in una edizione-miniatura, adatta alla consultazione immediata. Sulla scia della letteratura è facile allegare anche un cenno al nostro amore comune per la musica. Quando nella Basilica Superiore di Assisi la Rai registrava il «Concerto di Natale», mi veniva assegnato un posto accanto al presidente che in qualche edizione era presente. Seguiva, poi, il pranzo nel refettorio dei frati del convento. Furono quei concerti a farmi scoprire un altro orizzonte sorprendente di Giorgio Napolitano, la sua grande competenza musicale. Essa sapeva intrecciare alla conoscenza tecnica la finezza interpretativa.

Così seppi che assolutamente emozionante era per lui l’Ave verum di Mozart, «di una bellezza ultraterrena», come mi aveva confessato. Nei dialoghi in modo inatteso affioravano anche compositori di taglio diverso come Alban Berg o Arnold Schönberg o Luciano Berio… Proprio in questa linea il presidente aveva deciso di offrire ogni anno a Benedetto XVI per il suo compleanno un concerto nell’Aula Paolo VI, preceduto da incontri personali e conclusi da un commento “esegetico” alle musiche da parte del papa. Venni coinvolto – per un evento speciale – nell’organizzazione all’interno della Villa Pontificia di Castelgandolfo di un concerto molto particolare. A desiderarlo era stato Daniel Barenboim. L’originalità del concerto, tenutosi l’11 luglio 2012, era rappresentata soprattutto dalla qualità degli esecutori. Si trattava, infatti, della «West Eastern Divan Orchestra» creata appunto da quel direttore e costituita da un organico misto di musicisti palestinesi e israeliani. In uno splendido pomeriggio estivo Benedetto XVI e Napolitano si lasciarono condurre da una mirabile esecuzione sinfonica tutta beethoveniana, a cui seguì poi una cena intima dei due protagonisti.

In questa trama minima di ricordi vorrei evocare due ultime testimonianze. Per una miscellanea di studi che mi era stata dedicata per i 70 anni nel 2012, il presidente aveva offerto un saggio intitolato “La politica e la forza degli ideali”. In esso sviluppava un tema a lui molto caro, convinto – come scriveva – che «il visibile impoverimento ideale e culturale della politica abbia rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale». Il discorso si affidava, perciò, ai sentieri d’altura degli ideali, diversi dalla «rigidità, omnicomprensività e autosufficienza di un’ideologia militante», come era stata anche la «dottrina e la prassi comunista».

Siamo, infine, nel pomeriggio luminoso del 5 ottobre 2012, nella cornice stupenda del piazzale antistante la Basilica Inferiore del Convento di Assisi, all’ombra ideale del Poverello. Là si celebrava un «Cortile dei Gentili», ossia un dialogo tra credenti e non credenti attorno al tema «Dio, questo Sconosciuto». Il presidente Napolitano accettò di intervenire dialogando con me davanti a una folla enorme e partecipe, confessando di «rispondere a un intimo bisogno di raccoglimento, sfuggendo alla pressione incessante di doveri e di assilli da cui si rischia di non riuscire a sollevare lo sguardo e la mente».

La sua fu una straordinaria lezione-riflessione sul rapporto tra religione e società, che ebbe persino un intimo risvolto autobiografico. Napolitano, infatti, ricostruì il momento giovanile della sua crisi religiosa, ma anche il costante permanere del suo interrogarsi sulla trascendenza, una domanda – come mi disse – alimentata anche dalle sue letture filosofiche, soprattutto di Pascal.

A conclusione di questo ritratto semplificato del nostro dialogo e della simpatia reciproca intercorsa tra noi, vorrei citare un frammento illuminante di quel suo intervento ad Assisi: «Nel dialogo tra credenti e non credenti – sempre prezioso in vista del bene comune da perseguire in questa così travagliata nostra Italia – io rappresento, nella funzione che attualmente esercito al vertice delle istituzioni, gli uni e gli altri come cittadini, come italiani, e tendo ad unirli. A ciò corrisponde il mio mandato, così come lo interpreto e lo vivo. È dalla schiettezza del dialogo, e da un suo esito fruttuoso, che possono venire stimoli e sostegni nuovi per una ripresa di slancio ideale e di senso morale, della quale ha acuto bisogno oggi la nostra comunità nazionale come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato, con la democrazia, la sua libertà».




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