venerdì 22 marzo 2013
​I casalesi “imprenditori” del gioco: ieri 26 condanne definitive. In alcune zone del territorio nazionale le cosche, scrivono i giudici, «avevano ottenuto una posizione di sostanziale monopolio». Nell’operazione erano stati sequestrati beni per più di 150 milioni di euro.
Il magistrato Cafiero de Raho: ci servono più mezzi
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​Le mani delle mafie sul gioco d’azzardo legale. Ormai non ci sono più dubbi. Non ci possono più essere. La Corte di Cassazione ha, infatti, condannato definitivamente i 26 imputati dell’ «operazione Hermes» che nel 2009 scoperchiò una vera e propria holding criminale tra imprenditori del gioco, con in testa Renato Grasso, detto «il re dei videopoker», e il gotha della camorra, napoletana ma soprattutto casertana. Camorra di "serie A", camorra imprenditrice, clan dei casalesi, coi boss del calibro di Schiavone, Bidognetti, Zagaria, Iovine. Ma anche coi Misso del napoletano, un cui importante esponente, Giuseppe Misso, è stato arrestato proprio ieri.Ed è la prima volta che arriva una sentenza definitiva che sancisce questo legame tra gioco legale e cosche. Slot machine, bingo, scommesse in Campania ma anche nelle regioni del Centro e del Nord, compreso Roma e Milano. Gioco legale, lo ripetiamo. Lo avevano perfettamente individuato i magistrati della Dda di Napoli, guidati dal procuratore aggiunto, Federico Cafiero de Raho (vedi intervista). In attesa del deposito della sentenza della Suprema Corte, andiamo a rileggere quanto scrivevano i magistrati napoletani (oltre a Cafiero de Raho i pm Ardituro, Del Gaudio e Maresca, tra i più impegnati e a rischio nel contrasto ai casalesi). Questi imprenditori, leggiamo, avevano «ottenuto una posizione di sostanziale monopolio in determinate zone del territorio nazionale». Insomma niente a che fare con pressioni camorriste, pizzo o violenze ma vera e propria joint venture imprese-clan. Infatti Grasso e soci non subivano «l’ingerenza della criminalità organizzata nell’esercizio dell’attività d’impresa ma, all’opposto, strumentalizzando le associazioni criminali per la propria crescita imprenditoriale, ricercandone attivamente la collaborazione e l’apporto».Insomma per la Dda, e ora per la Cassazione, non è la camorra a cercare gli imprenditori ma sono questi ultimi a cercare la camorra. Proponendo affari in comune, ottenendo protezione e sostegno per piazzare le macchinette, assicurando in cambio ricchissimi "dividendi". Si tratta di decine di milioni di euro. Non per niente quattro anni fa, oltre a decine di arresti (anche due carabinieri che avvertivano imprenditori e clan) e ancor più indagati, vennero sequestrati beni per più di 150 milioni di euro: 100 immobili, 39 società commerciali, 23 ditte individuali, 104 autoveicoli, 140 tra quote societarie e conti correnti e soprattutto sale bingo nonché la società Betting 2000 la quale, come sottolineavano gli inquirenti, sviluppa il più alto volume di affari nel settore delle scommesse sportive. Sequestro via via confermato, fino alla confisca definitiva sancita lo scorso anno sempre dalla Cassazione (la Betting è stata gestita in questi anni da un amministratore giudiziario). Non solo nel napoletano e nel casertano. Da Casal di Principe, feudo dei casalesi, l’operazione arrivò alla sala bingo «Dea bendata» di via Zara a Milano e a quella a Cernusco sul Naviglio, della società «Febe srl». E poi ancora a Cologno Monzese, Brescia, Cremona, Padova, Lucca. Tutte riconducibili a Renato Grasso, ai fratelli e soci, attraverso prestanome. Una proprietà effettiva confermata da moltissime intercettazioni.Imprese e casalesi ma non solo. Nell’affare anche i clan Misso, come abbiamo detto, e Mazzarella, e perfino i siciliani Madonia e alcune cosche della ’ndrangheta. A conferma che il piatto è talmente ricco che ce n’è per tutti. Al centro dell’indagine c’è lui, il «re dei videopoker» che ha fatto da "ponte" tra la camorra di Pianura e quella di Casal Di Principe. Ma i soldi macinati dalle sua slot fanno gola a siciliani e calabresi: tutti soci in affari nel nome del videopoker. Per gestire questi settori si è utilizzato il classico sistema delle società a scatole cinesi, ovvero l’uso di prestanome con la fedina penale immacolata dietro ai quali si nascondevano gli uomini della mala. Denaro che veniva ripulito e che per chi investiva diventava un fruttuoso investimento, visto che alle cosche Grasso versava puntualmente una sorta di "royalty".
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