Ecco chi ha voluto lo sciopero e come ha intercettato un "popolo" trasversale
di Diego Motta
L'Usb e le sigle di base hanno compattato in questi mesi lavoratori portuali, studenti, dipendenti pubblici. Il tema trainante della "causa palestinese" e la formula del collettivo hanno fun

Chi c’è dietro alla mobilitazione delle piazze per Gaza? E quale “popolo” rappresenta? La domanda non è peregrina, se soltanto si pensa alla capacità dimostrata dagli organizzatori nell’ultimo mese di coinvolgere, soprattutto nelle grandi città, mondi diversi alle varie manifestazioni.
Dietro alla sigla Usb, l’Unione sindacale di base, che ha proclamato lo sciopero generale, c’è una forza sociale che conta «qualche centinaio di migliaia di iscritti di tutte le categorie, pubbliche e private» spiegano i lavoratori. Lo “zoccolo duro” in questa fase si è formato con i picchetti dei lavoratori portuali, i primi a dare un segnale di rottura con lo stop alle spedizioni di materiale bellico destinate a Israele. Da Genova a Trieste, passando per Taranto e Ravenna, i “duri e puri” impegnati sulle banchine e nella logistica hanno iniziato così a muoversi, recuperando lo spirito che in anni passati (non da oggi, dunque) avevano già mostrato fermando carichi militari destinati allo Yemen, ad esempio.
Questa volta, però, le motivazioni erano molto più forti, a partire dallo storico rapporto che lega la sinistra radicale (una volta si sarebbe detto così) alla causa palestinese. «Lo sciopero generale ha una portata politica senza precedenti» dicono oggi dall’Usb, ben sapendo di essere riusciti nelle scorse settimane a fare quello che ad altre organizzazioni più grandi e strutturate (come la Cgil, che non a caso si trova a rincorrere) non è riuscito: essere orizzontali. La trasversalità dei mondi sociali presenti ai cortei è il vero dato di novità: nei cortei ci sono operai e tute blu scomparse dai radar della politica, insieme a studenti dei licei, lavoratori delle scuole e della pubblica amministrazione e delegati delle grandi fabbriche, migrati qui dalle grandi sigle confederali.
Ciò che sta pesando in questa fase, soprattutto da parte delle nuove generazioni, è l’ondata di indignazione collettiva vissuta prima lungo tutta l’estate, poi con la ripresa delle attività autunnali, da parte di chi vede nella vicenda mediorientale l’eterno conflitto tra Davide e Golia. Esserci nelle piazze, insomma, è una specie di imperativo morale per chi fa riferimento all’universo di base, «perché la Palestina è il nostro Vietnam».
Non va poi dimenticato che l’ossatura di questo movimento si è rafforzata con battaglie sindacali e rivendicazioni di frontiera, che hanno verosimilmente fruttato consensi. Se le fabbriche pesano di meno nella creazione di una filiera di contestazione efficace, è perché questa parte del sindacato si è concentrata di più nell’ultimo decennio sul settore dei servizi, del pubblico impiego, della scuola ovviamente.
«Abbiamo visto tante richieste d’iscrizione negli ultimi tempi» spiegano dagli uffici dell’Usb. Le ragioni sono anche nel fatto che in queste organizzazioni non esiste una vera e propria struttura gerarchica, non c’è la figura del segretario. E l’idea di un collettivo in cui tutti sono alla pari, in questa fase storica, attira molto. Soprattutto i giovani. Per dirla con un tesserato Usb come Giorgio Cremaschi, storico sindacalista con un passato ai vertici della Fiom Cgil e un presente da esponente di Potere al Popolo, «a favorire il nostro recente successo, oltre al lavoro umile e silenzioso di tanti militanti, è anche un sistema sindacale che agevola la frammentazione, visto che in Italia la rappresentanza è decisa da chi firma gli accordi e non da chi, come noi, li contesta». Così a fianco dell’Usb, ci sono i Sì Cobas, i Sol Cobas e altre sigle che seguono chi i braccianti, chi gli sfruttati del manifatturiero, chi i rider.
Resta un ultimo, inevitabile interrogativo: può questa mobilitazione emotiva che da Gaza finisce per spostarsi sui temi di casa nostra, diventare anche un veicolo di malcontento politico? Al momento la risposta è netta: no. Non adesso, perché non ce ne sono le condizioni. Non a breve e medio termine, perché gli effetti delle contestazioni sociali si traducono in appartenenza politica (e in voti) con tempi lunghi. Eppoi semplicemente, perché alla maggior parte di chi scende in strada per “bloccare tutto” la politica interessa poco o nulla. Partecipare è un dovere, certo, ma la via delle piazze per adesso è più immediata di quella delle urne.
Dietro alla sigla Usb, l’Unione sindacale di base, che ha proclamato lo sciopero generale, c’è una forza sociale che conta «qualche centinaio di migliaia di iscritti di tutte le categorie, pubbliche e private» spiegano i lavoratori. Lo “zoccolo duro” in questa fase si è formato con i picchetti dei lavoratori portuali, i primi a dare un segnale di rottura con lo stop alle spedizioni di materiale bellico destinate a Israele. Da Genova a Trieste, passando per Taranto e Ravenna, i “duri e puri” impegnati sulle banchine e nella logistica hanno iniziato così a muoversi, recuperando lo spirito che in anni passati (non da oggi, dunque) avevano già mostrato fermando carichi militari destinati allo Yemen, ad esempio.
Questa volta, però, le motivazioni erano molto più forti, a partire dallo storico rapporto che lega la sinistra radicale (una volta si sarebbe detto così) alla causa palestinese. «Lo sciopero generale ha una portata politica senza precedenti» dicono oggi dall’Usb, ben sapendo di essere riusciti nelle scorse settimane a fare quello che ad altre organizzazioni più grandi e strutturate (come la Cgil, che non a caso si trova a rincorrere) non è riuscito: essere orizzontali. La trasversalità dei mondi sociali presenti ai cortei è il vero dato di novità: nei cortei ci sono operai e tute blu scomparse dai radar della politica, insieme a studenti dei licei, lavoratori delle scuole e della pubblica amministrazione e delegati delle grandi fabbriche, migrati qui dalle grandi sigle confederali.
Ciò che sta pesando in questa fase, soprattutto da parte delle nuove generazioni, è l’ondata di indignazione collettiva vissuta prima lungo tutta l’estate, poi con la ripresa delle attività autunnali, da parte di chi vede nella vicenda mediorientale l’eterno conflitto tra Davide e Golia. Esserci nelle piazze, insomma, è una specie di imperativo morale per chi fa riferimento all’universo di base, «perché la Palestina è il nostro Vietnam».
Non va poi dimenticato che l’ossatura di questo movimento si è rafforzata con battaglie sindacali e rivendicazioni di frontiera, che hanno verosimilmente fruttato consensi. Se le fabbriche pesano di meno nella creazione di una filiera di contestazione efficace, è perché questa parte del sindacato si è concentrata di più nell’ultimo decennio sul settore dei servizi, del pubblico impiego, della scuola ovviamente.
«Abbiamo visto tante richieste d’iscrizione negli ultimi tempi» spiegano dagli uffici dell’Usb. Le ragioni sono anche nel fatto che in queste organizzazioni non esiste una vera e propria struttura gerarchica, non c’è la figura del segretario. E l’idea di un collettivo in cui tutti sono alla pari, in questa fase storica, attira molto. Soprattutto i giovani. Per dirla con un tesserato Usb come Giorgio Cremaschi, storico sindacalista con un passato ai vertici della Fiom Cgil e un presente da esponente di Potere al Popolo, «a favorire il nostro recente successo, oltre al lavoro umile e silenzioso di tanti militanti, è anche un sistema sindacale che agevola la frammentazione, visto che in Italia la rappresentanza è decisa da chi firma gli accordi e non da chi, come noi, li contesta». Così a fianco dell’Usb, ci sono i Sì Cobas, i Sol Cobas e altre sigle che seguono chi i braccianti, chi gli sfruttati del manifatturiero, chi i rider.
Resta un ultimo, inevitabile interrogativo: può questa mobilitazione emotiva che da Gaza finisce per spostarsi sui temi di casa nostra, diventare anche un veicolo di malcontento politico? Al momento la risposta è netta: no. Non adesso, perché non ce ne sono le condizioni. Non a breve e medio termine, perché gli effetti delle contestazioni sociali si traducono in appartenenza politica (e in voti) con tempi lunghi. Eppoi semplicemente, perché alla maggior parte di chi scende in strada per “bloccare tutto” la politica interessa poco o nulla. Partecipare è un dovere, certo, ma la via delle piazze per adesso è più immediata di quella delle urne.
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