Opinioni

Stati Uniti. O scappare o morire (l'innocente migrazione)

Ferdinando Camon martedì 13 aprile 2021

Siamo dentro un’auto della polizia di frontiera, nel Texas, al confine con il Messico. L’auto è ferma. La porta anteriore sinistra, quella del conducente, è aperta, ma il conducente è seduto al suo posto. Si vede un paesaggio vuoto, infatti è il deserto. Nel deserto si materializza un bambino sui 10 anni, con un giaccone molto più grande di lui, viene a passi lenti verso l’auto e chiede: 'Signore, mi può aiutare?'.


La voce trema, non è una voce, è un singhiozzo, il ragazzo è terrorizzato, se fosse dentro una fossa di leoni tremerebbe di meno. Siamo negli Stati Uniti, ma il ragazzo parla spagnolo. È un nicaraguense. Le lacrime gli lavano la faccia come una pioggia. È mattina, il bambino deve aver passato una notte spaventosa, nel deserto. Dice che ha camminato per uscire dal deserto e trovare una strada, perché nel deserto aveva paura di essere sequestrato. Ragionamento complesso. Ci ho pensato. Nel deserto ti possono catturare venendo da davanti, da dietro, da destra o da sinistra. O dall’alto. Nella strada no. Nella strada può esserci qualcuno che ti salva. Nel deserto lui è arrivato con un gruppo, poi il gruppo l’ha abbandonato e se n’è andato. 'C’era tuo padre nel gruppo?' chiede il poliziotto, 'o tua madre?'. 'No – dice il bambino –, erano tanti ma mi hanno lasciato qui, non so dove andare'. Il bambino associa solitudine a sequestro, dunque sa che se sei solo ti prendono e ti portano via. Sa di essere una preda, sa che il mondo è fatto di prede e di predatori. Non si capisce perché il poliziotto filmi la scena. Non è un suo dovere, il suo dovere è rispedire indietro chi ha passato il confine: era una direttiva di Trump, è diventata una direttiva di Biden.

Dal Messico cercano di entrare negli Stati Uniti in tutti i modi. Anche improvvisando. Ci sono ragazzini che s’imbucano nei pullman dei turisti americani, quando questi fanno una sosta oltre confine, sperando di essere portati di qua tra i bagagli e le ruote di scorta, poi appena son di qua scappano a gambe levate, e chi s’è visto s’è visto. Ho fatto una gita da Los Angeles a Tijuana, io sono europeo e non so queste cose, perciò al ritorno non capivo perché l’autista fermava il pullman appena al di qua del confine, scendeva e controllava con la torcia elettrica nel bagagliaio e sotto i sedili, uno per uno. È lì che s’infilano i ragazzini, scappati di casa senza avvertire la madre. La madre non è una complice dei piccoli migranti, la madre vorrebbe tenere i figli con sé, vivere con loro. O semmai scappare con loro. Anche la madre di questo piccolo nicaraguense, il quale si chiama Wilton Obregon, era scappata con lui, ma la polizia americana li aveva rimandati in Messico e in Messico erano stati catturati da una banda di criminali che s’è messa subito in contatto con lo zio di Wilton, che vive a Miami, per chiedere un riscatto. Lo zio ha mandato i soldi che poteva, 5mila dollari, ma la banda li ha ritenuti sufficienti per liberare un ostaggio, non due. E così ha liberato il bambino. Lo ha portato oltre il muro del confine e lo ha abbandonato nel deserto.

Lo ha affidato al suo destino, alla vita o alla morte, come per dire: 'Questo bambino ha pagato, per noi non vale più nulla, prendetelo'. Quand’è scappato con la madre per la prima volta, il bambino sentiva che per lui e per lei la scelta era obbligata: scappare per non morire. È scappato, lo han ributtato indietro, riscappa ancora, sempre convinto che la scelta sia una sola: scappare o morire. Ma forse a questo punto comincia a dubitare che sia un’alternativa, e a pensare che le due possibilità siano una sola, fuga e morte si equivalgono. Vanno e vengono, catturati e sequestrati, liberati e di nuovo in fuga, noi non conosciamo tutto questo groviglio di vita e di morte, d’incontri con i sequestratori e con i poliziotti, e liquidiamo l’intero fenomeno con una sola parola innocente: migrazione.