Attualità

Biotestamento. Le regole ci sono, nessun «vuoto»

Marcello Palmieri giovedì 7 dicembre 2017

Una legge posteriore può abrogarne una precedente in modo esplicito (disponendone l’eliminazione) o in modo implicito (dettando un contenuto incompatibile). Se però quanto stabilito dalla prima e contraddetto dalla seconda trova rispondenza in altre fonti normative ordinarie, e se queste suonano consonanti a quanto dettano Costituzione e convenzioni internazionali, allora la questione si complica: può infatti una singola legge scardinare princìpi consolidati nella società civile e nell’ordinamento giuridico?

È l’interrogativo che solleva la lettura delle «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento» in discussione al Senato Il punto di partenza è che la disciplina del fine vita, oggi, diversamente da quanto si vorrebbe far credere, appare tutt’altro che vittima di un vuoto legislativo: le norme ci sono, anche se sparse qua e là tra diversi testi. Nessun problema dunque se la nuova legge ne recepisse in una fonte unitaria lettera e spirito. Ma non tutto il testo del testo sul biotestamento va in questa direzione. Balza subito all’occhio, per esempio, che la nostra Carta fondamentale inserisce la tutela della salute (articolo 32) tra i rapporti etico-sociali. La legge in discussione, invece, esalta il concetto di 'autodeterminazione' del singolo. Ancora più evidente è poi la contraddizione tra quest’ultimo progetto di norma da una parte e il Codice penale così come il Codice di deontologia medica dall’altra. Dove infatti le norme sul fine vita vorrebbero disporre che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale», proprio l’articolo 580 del Codice penale prevede che aiutare una persona a morire possa costare da 5 a 12 anni di reclusione. E attenzione: il fatto che il disegno di legge si prenda la briga di enunciare l’esenzione di responsabilità del medico lascia intendere che «rinuncia» o «rifiuto» del trattamento possano essere intesi in senso estensivo quale ausilio nei confronti del malato – anche non terminale – che chiede la morte. Diversamente – visto che già la Costituzione all’articolo 32 dispone che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» – non vi sarebbe stata alcuna ragione per disporre l’esenzione del medico dalle responsabilità penale e civile (soprattutto risarcitoria). Certo è che il Codice di deontologia medica, all’articolo 17 questo dispone: «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte».

Un’altra dissonanza si leva poi in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), che la bozza di legge eleva a vere e proprie «disposizioni » (dunque tassativamente vincolanti). Ma questo non prevedono né la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (vincolante quale fonte normativa internazionale) né lo stesso Codice deontologico: la prima parla infatti di «desideri» da «tenere in considerazione», il secondo di «dichiarazioni anticipate» di cui tener conto. Ma sempre, evidentemente, con l’intermediazione professionale del medico.

Altro tema della norma in discussione, la necessità che il paziente sia costantemente informato dal medico circa necessità e prospettive della sua salute: nulla di nuovo, visto che l’articolo 35 del Codice deontologico già si sofferma sull’obbligo e le modalità d’acquisizione di «consenso e dissenso informato». Ecco allora evidente che in Italia una precisa regolamentazione su consenso informato, dichiarazioni anticipate di trattamento e fine vita (con la legge 38 del 2010 sulle cure palliative) già esiste da tempo. Solo che l’attuale legislatore non sembra condividerla fino in fondo, e così tenta di modificarla con una nuova legge parzialmente in contrasto. A costo di creare pericolose contraddizioni nell’ordinamento.