Agorà

Novecento. Il segno dell'incompiuto nelle lettere di Pasolini

Alessandro Zaccuri venerdì 3 dicembre 2021

Da sinistra, Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Paolo Volponi

Nonostante si interrompa violentemente quando manca ancora un quarto al compimento del secolo, quello di Pier Paolo Pasolini può essere considerato l’ultimo grande epistolario del Novecento. Per la personalità del protagonista, anzitutto, che di lettera in lettera compone un’autobiografia in larga parte collettiva, sullo sfondo di trasformazioni sociali e culturali precocemente intuite con istinto febbrile. Ma le sue lettere di Pasolini sono perfettamente novecentesche per le contraddizioni che manifestano, anche dal punto di vista del documento materiale. Manoscritti, dattiloscritti, copiati in bella oppure segnati correzioni e ripensamenti, nel tempo i messaggi diminuiscono di numero, passando dal rigoglio degli anni Quaranta e Cinquanta alla fioritura più sporadica dei Sessanta. Nei Settanta, infine, si diradano fin quasi a scomparire. Inizialmente restio a servirsi del telefono, anche Pasolini dev’essersi deciso a utilizzare più di frequente la tecnologia allora disponibile. Del resto, non è proprio la svolta cinematografica a essergli implicitamente rimproverata da Gianfranco Contini, che pure era stato dai suoi primi estimatori? Di questa natura, almeno, è la convinzione o, meglio, il sospetto che Pasolini dichiara di nutrire per via di una di quelle congetture, sempre sospese tra vulnerabilità e orgoglio, così frequenti nell’epistolario. Non comprese nella fondamentale edizione delle opere curata da Walter Siti e Silvia De Laude per i “Meridiani” Mondadori, le Lettere pasoliniane erano state raccolte da Nico Naldini in due volumi apparsi da Einaudi tra il 1986 e il 1988. Cugino e biografo di Pasolini, oltre che notevole poeta e narratore in proprio, Naldini è morto nel settembre del 2020 all’età di 91 anni, mentre era impegnato nell’edizione ampliata e rivista dell’epistolario. Il libro esce ora da Garzanti a cura sua e di Antonella Giordano (pagine 1.500, euro 60,00), ed è una primizia rispetto alle celebrazioni del centenario di Pasolini, nato a Bologna il 5 marzo 1922. Un «racconto in prima persona» di Naldini avrebbe dovuto accompagnare questa nuova edizione delle Lettere, ma il progetto non si è potuto realizzare. In compenso, al lettore vengono offerte trecento pagine di cronologia dettagliatissima, nella quale l’impronta di Naldini rimane ben riconoscibile. La vita di Pasolini è ripercorsa con minuziosa partecipazione, dagli anni della formazione e degli esordi fino al sanguinoso epilogo del 2 novembre 1975, quando il poeta-regista viene assassinato sul litorale di Ostia. Di primo acchito, nell’epistolario la vicenda biografica di Pasolini sembra occupare meno spazio di quanto ci si aspetterebbe. Le ragioni della letteratura risultano da subito prevalenti, in un intreccio sempre più fitto tra editoria, giornalismo, impegno civile e, appunto, cinema. È un’impressione che Le lettere del centenario provvedono in ampia misura a smentire. Tra le acquisizioni più importanti del lavoro compiuto da Giordano e Naldini (che hanno attinto, tra l’altro, alle carte conservate presso l’Archivio Bonsanti del fiorentino Gabinetto Vieusseux) c’è infatti la struggente confessione epistolare che Pasolini nel maggio del 1945 indirizza al fratello Guido, ucciso pochi mesi prima nel contesto dell’eccidio di Porzûs. Per per molti aspetti Guido è il primo dei tanti eroi tragici che da qui in poi popoleranno l’opera di Pasolini: «L’idea per cui sei morto, martire, se ne andrà, sembrerà una parola di tempi inutili perché passati – chiede Pier Paolo –. Ma io non voglio far morire te, che hai già una vita di vent’anni, e questa, nessuno può dubitarne, resta tua e nostra, anche se tu non ci sei più». Sono parole che spostano il baricentro emotivo dell’epistolario, all’interno del quale agiscono nuclei già delineati con chiarezza in precedenza, primo fra tutti quello delle lettere rivolte a Silvana Mauri attorno al 1950 e incentrate sul tema dell’omosessualità. Circa trecento sono i documenti non presenti nell’edizione Einuadi: alcuni del tutto inediti, altri finora riprodotti solo parzialmente o in sedi differenti. Ci sono conferme, come quella relativa a Carlo Betocchi, il poeta con il quale Pasolini si confronta con maggior assiduità (è in dialogo con lui che, nel 1954, rivendica la centralità del «puro irrazionale amore cristiano»). E ci sono blocchi altrimenti sconosciuti o quasi, come quello della fitta corrispondenza con Paolo Volponi. Si arricchisce di ulteriori particolari anche il quadro delle relazioni di Pasolini con la comunità religiosa della Pro Civitate Christiana di Assisi, che ebbe un ruolo decisivo nella genesi del Vangelo secondo Matteo cinematografico. L’omaggio ai «candidi seguaci di Cristo» trapela già nella lettera (inedita) indirizzata nel 1962 a don Giovanni Rossi, destinato a divenire uno degli interlocutori privilegiati di Pasolini. Esemplare, in proposito, il messaggio dell’ottobre 1965, con il quale il regista reagisce alle osservazioni degli altri amici assisiati a proposito della sceneggiatura di Uccellacci e uccellini. Tra tutti, il documento più lancinante è però quello che suggella l’epistolario: un biglietto con il quale Pasolini affida alla cugina Graziella Chiarcossi la bozza di un articolo su Andy Warhol. Alcuni nomi («che non ricordo») sono rimasti in bianco, dice. Un segno di incompiutezza, un modo per celebrare Pasolini per quello che ha fatto e per quello che non ha avuto tempo di fare.