Salvare il pianeta e noi. Quammen: «Scienza, attività umana»
«La ricerca - spiega lo scrittore, ospite a BergamoScienza - è un percorso fatto di errori e correzioni e va raccontata senza semplificazioni»

«La scienza è un’attività umana, come il calcio o la danza classica». Non è una provocazione, ma il modo in cui David Quammen invita a guardare oltre dati e formule, per ricordarci che dietro a ogni scoperta ci sono persone con dubbi, paure, ambizioni, fallimenti e successi. Uno dei più autorevoli divulgatori scientifici contemporanei, autore di libri tradotti in tutto il mondo tra cui il celebre Spillover - il saggio che già nel 2012 aveva anticipato il rischio di una pandemia globale - torna oggi a mettere in guardia: «La nostra preparazione, paradossalmente, è peggiorata rispetto al 2020».
Il messaggio non potrebbe essere più attuale. In un’epoca in cui la circolazione di fake news e di teorie complottiste rischia di minare la fiducia nella scienza, Quammen insiste proprio sull’importanza di raccontare la scienza come processo umano, con correzioni e nuove evidenze, ovvero il modo più efficace per distinguere il sapere scientifico da semplificazioni che dilagano online. Al centro di questo processo, la natura in tre grandi filoni: la perdita di biodiversità, la distruzione degli ecosistemi, la crescita dei consumi e della popolazione, che per Quammen sono i veri motori di tre grandi crisi parallele che ci costringono a ridefinire il nostro rapporto con il pianeta.
Quammen porterà queste riflessioni domani mattina (sabato 4 ottobre) al Festival BergamoScienza 2025, dove insieme al filosofo della scienza Telmo Pievani, parlerà di come la distruzione degli ecosistemi e la crisi climatica stiano sconvolgendo gli equilibri naturali, spiegando anche che virus e patogeni sono alcuni degli organismi più antichi del Pianeta, ma ancora poco conosciuti.
Nei suoi libri riesce a rendere accessibili argomenti complessi. Come riesce a colmare il divario tra rigore scientifico e narrazione?
«Penso che dipenda dal fatto che io stesso non ho una formazione scientifica, ma letteraria. Ho iniziato la mia carriera come romanziere, poi mi sono avvicinato alla scienza e alla saggistica. Da allora ho continuato a leggere testi scientifici e a scriverne, senza dimenticare cosa significhi essere un non scienziato che cerca di capire dall’esterno. Quando scrivo, penso sempre al lettore che non ha studiato le scienze: cerco di conversare con lui, di spiegare in termini semplici. E poi ricordo che le persone vogliono leggere di altre persone: la scienza è un’attività umana, come il calcio, gli scacchi o la danza classica. Se la racconti attraverso le vite e le emozioni di chi la fa, diventa più facile immedesimarsi».
Quanto è importante oggi lo storytelling in un mondo così ricco di informazioni e fake news?
«È fondamentale. Viviamo immersi dentro a informazioni errate, teorie cospirative e scienza fasulla. Basta una ricerca su Google per imbattersi in affermazioni prive di fondamento, anche se fatte da qualcuno con un titolo accademico. Il nostro lavoro è spiegare come funziona davvero la scienza: un processo umano con ambizioni, frustrazioni, errori e correzioni, ma basato sul controllo reciproco e sulle prove empiriche. Raccontare storie su chi fa scienza aiuta il pubblico a comprendere e a distinguere il sapere scientifico dalle falsità che circolano online».
Nei suoi libri mostra spesso il lato umano dei ricercatori. Quanto è importante rivelarne paure ed esitazioni?
«Molto importante. La scienza non è matematica, dove le verità sono dimostrabili con certezza: è un processo sempre provvisorio, soggetto a correzioni quando emergono nuove evidenze. Pensiamo al caso delle mascherine durante il Covid: prima si disse che non erano necessarie, poi cambiò la posizione alla luce di nuove prove e della disponibilità di scorte. Non era una menzogna, ma un aggiornamento basato su nuove informazioni. Lo stesso è accaduto nella storia della scienza: Newton ha dominato per secoli, poi Einstein ha corretto le sue leggi. La scienza funziona così».
In Spillover aveva “anticipato” la possibilità di una pandemia globale. Quali lezioni non abbiamo ancora imparato dopo il Covid?
«Paradossalmente ne abbiamo disimparate alcune. La preparazione alla pandemia è peggiorata rispetto al 2020. Abbiamo però imparato che siamo in grado di sviluppare vaccini in tempi rapidissimi e di produrli su larga scala, grazie alla tecnologia e altri approcci. È un progresso straordinario. Ma la diffusione di ignoranza e disinformazione da parte di leader politici renderà più difficile affrontare la prossima pandemia, che potrebbe essere anche più devastante».
Qual è la minaccia più preoccupante che vede nella frattura tra uomo e natura?
«Il problema di fondo è la crescita della popolazione moltiplicata per i consumi. Da qui derivano i tre grandi temi delle nostre crisi: cambiamento climatico, perdita di biodiversità e nuove malattie. Sono fenomeni distinti, ma con la stessa radice. Bisogna immaginarli come tre fiumi che scorrono da un unico ghiacciaio che si scioglie: quel ghiacciaio è la pressione esercitata dall’umanità sul pianeta».
Nei suoi libri ritorna spesso la prospettiva evolutiva. Come può questa aiutarci a comprendere pandemie e crisi ambientali?
«L’evoluzione è fondamentale per capire le pandemie. Quando emerge un virus sconosciuto, come a Wuhan, dobbiamo chiederci da dove viene: da quale animale? Attraverso quale percorso? Queste sono domande di ecologia ed evoluzione dei virus. La biologia evolutiva ci permette di comprendere i meccanismi di trasmissione e prevenire nuove epidemie. È incredibile pensare che Darwin, pur senza conoscere i virus, ci abbia lasciato un’idea così ampia e potente da spiegare anche il loro comportamento».
L’intelligenza artificiale è sempre più presente nei processi scientifici. È uno strumento utile?
«Sì, se usata correttamente. Non è l’IA il problema, ma il suo abuso. Uno studente che fa scrivere un saggio all’IA sta solo imbrogliando se stesso, rinunciando a imparare. Ma ci sono usi preziosi: per esempio, quando scrivo e ho bisogno di chiarimenti su un concetto tecnico oggi posso ottenerlo in pochi secondi invece di perdere ore tra ricerche frammentarie. Non copio le risposte, ma le uso per imparare più velocemente».
Secondo lei come possiamo riscoprire un legame profondo con la natura?
«Raccontando storie. È lo scopo della mia vita: far capire quanto sia preziosa la biodiversità. Se parli solo in termini astratti, la gente non si preoccupa di un orso polare o di un insetto che scompare. Ma se racconti storie che li rendono vivi, affascinanti, carismatici, allora forse i lettori iniziano a capire. Se perdiamo la biodiversità non significa necessariamente che l’umanità si estinguerà, ma lasceremo ai nostri figli un pianeta più noioso, brutto e solitario».
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