domenica 19 luglio 2020
Nel 1983 Michael & Johnson fecero ballare il mondo. Ora Johnson fonda un’etichetta, torna solista e pubblica la prima demo originale del suo successo sognando una factory come Andy Warhol
Il cantante Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi

Il cantante Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi - -

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Alzi la mano chi non ha intonato almeno una volta l’inno per eccellenza dell’estate, quel Vamos a la playa che introduceva i colorati e ottimisti anni 80. Era il 1983, infatti, quando i “fratelli artistici”, Michael & Johnson Righeira, occhiali da sole, cravatte sgargianti e balletti demenziali, col loro ritornello fecero ballare l’Italia e l’Europa, rimanendo in vetta all’hit parade 7 settimane e vendendo 3 milioni di dischi. Di colpo i due ragazzi torinesi (al secolo Stefano Righi e Stefano Rota) cresciuti nel quartiere operaio Barriera di Milano, compagni di scuola del liceo scientifico “Albert Einstein” grazie all’incontro con i geniali produttori fratelli La Bionda divennero i re del tormentone estivo. Seguirono a ruota No tengo dinero, Tanzen mit Rgheira, Hei mama, L’estate sta finendo con cui vinsero il Festivalbar 1985 e Innamoratissimo con cui sbarcarono a Sanremo nel 1986. Dopo alterne fortune i Righeira si separarono definitivamente nel 2015 e Johnson ritorna oggi solista come 40 anni fa, quando esordì nel 1980 con la pubblicazione del suo primo 45 giri Bianca surf. Per festeggiare anche i prossimi 60 anni, che compirà il 9 settembre, il musicista ha aperto la sua etichetta discografica, la Kottolengo Recordings, the Emergency Label e lancia in vinile e in digitale Johnson Righeira’s 40th Creer Anniversary – Vamos a la playa (1981), ovvero la prima demo originale del suo più grande successo.

Johnson Righeira, come mai ha deci- so di rieditare Vamos a la playa 40 anni dopo?

Volevo fare questo regalo a me stesso e alla canzone che mi ha cambiato la vita. A partire da quella cantina e quella notte del 1981 in cui mi venne in mente il ritornello. Propongo il remake del provino originale che era registrato su una cassetta. Il tono è più scuro, elettronico, in linea con il testo che immagina uno scenario apocalittico dopo un’esplosione atomica. Eravamo nel pieno della new wave, c’erano le influenze dei Kraftwerk…

La versione del 1983 invece è un apparente inno all’allegria.

Si veniva dagli anni di piombo, quelli delle stragi delle Br. Gli anni 80 portarono una ventata di allegria. Ma sono stati ingiustamente accusati di leggerezza e superficialità. Quello è stato l’ultimo decennio in cui si è verificata una esplosione di arte, design, musica. Gli anni 80 sono quelli più rimpianti dalle persone. Quante canzoni ci sono rimaste dentro e tutt’oggi si ascoltano?

Lei aveva 20 anni quando esplose il successo improvviso.

Quell’estate facevo il militare in caserma a Bellinzago, in provincia di Novara, e stavo vivendo una doppia vita. Fuori il successo, l’hit parade, le televisioni, mentre io ero costretto a stare dentro. È stato traumatico. Non capivo quello che stava realmente succedendo. Avevo bisogno di 20 giorni per andare alla finale del Festivalbar e registrare l’album così mi inventai di essere depresso. Ma lo psicologo non ne voleva sapere. Poi gli chiesi se conosceva Vamos a la Playa e gli dissi chi ero. Lui chiamò il tenente che mi fece una ramanzina, ma poi mi concesse la licenza. Lì ho capito che qualcosa era cambiato.

Ma come si è avvicinato alla musica?

Torino ha sempre prodotto musica particolare, da Fred Buscaglione a Gipo Farassino che amavo tanto. Io ho iniziato come Johnson nella scena underground torinese. Mentre il punk inglese si rifaceva al rock delle origini, l’unica possibilità di fare il punk in Italia era ripartire dagli artisti italiani che negli anni ‘50 e ‘60 si erano staccati dalla tradizione, da Bruno Martino a Mina e Nilla Pizzi. Vamos a la playa era una canzone da spiaggia postatomica ispirata a Edoardo Vianello.

E la musica di oggi?

Da quando è arrivata la tecnologia è tutto molto più facile e questo è estremamente democratico. La trap mi ha molto incuriosito ed ora sto avendo uno scambio con il rapper Rosa Chemical. Sono tornato a occuparmi dell’underground, il grande successo è stato solo un incidente fortunato e benvenuto

Come mai ha chiamato la sua etichetta Kottolengo Records?

Perché io abito a Torino davanti al Cottolengo e perché in dialetto piemontese “cutulengu” significa folle, pazzo. Ma lungi dall’essere irrispettoso, io stimo il Cottolengo che è una istituzione importantissima. Io sono sempre stato di sinistra, ma condivido i valori del cristianesimo: la solidarietà, l’amore per gli altri, il rispetto per il prossimo. Lo spirito? Io sono religioso in modo del tutto anarchico.

L’umanità post atomica di Vamos a la playa assomiglia a quella post Covid?

Vamos aveva una idea molto leggera: che ci importa, sopravviveremo lo stesso, diventeremo blu ma riusciremo a farcela. Il Covid, comunque, è un cartellino giallo che ci dà il pianeta, l’avvertimento di un mondo soffocato dall’inquinamento e dal riscaldamento globale. E speriamo se ne vada presto. Personalmente mi ha falcidiato l’estate: avevo in programma 40 serate, se ne faccio 5 o 6 va già bene.

Nonostante la crisi lei ha comunque il coraggio di investire nella musica.

Più che altro mi tolgo qualche sassolino dalla scarpa. Pubblicherò un progetto di Dandy Bestia, chitarrista e fondatore degli Skiantos, con testi inediti di Freak Antoni. Antoni e Maurizio Arcieri dei Krisma, sono stati due geni snobbati. Coinvolgerò Cristina Moser, la vedova, nella prima uscita discografica dopo la morte di Arcieri.

Anche i Righeira secondo lei sono stati snobbati?

Forse eravamo troppo avanti. In generale, ripeto, gli anni 80 sono stati sottovalutati. La musica pop italiana ha avuto un decennio straordinario, abbiamo esportato milioni di dischi. In Francia al re della disco music Cerrone lo Stato dà le medaglie, a noi ci fan fare quelle trasmissioni tristi sulle vecchie glorie. Non ci andrò mai e poi mai…

Probabilmente è pesato il confronto con i politicizzati anni 70.

Io andavo ai cortei con i miei compagni, ma non ho mai amato l’estetica dell’eskimo e loro mi guardavano male. Noi siamo partiti con un look new wave molto colorato. La nostra follia si ispirava al futurismo, e per questo ci criticavano come fossimo dei fascisti: ma figuriamoci, a noi interessava il Futurismo come movimento artistico. E il tempo ci ha dato ragione.

E Michael?

Noi eravamo inseparabili, era naturale condividere tutto. I fratelli La Bionda si innamorarono di noi e lavorarono per farci diventare dei personaggi televisivi. Dopo tanti successi però subentrò lo stress da attesa, tutti si aspettavano la hit nuova, ma noi non eravamo dei professionisti, facevamo quello che ci veniva. Poi abbiamo avuto anni oblio.

In quegli hanno lei ha vissuto anche la dolorosa esperienza del carcere…

Ammetto i miei errori, erano anni in cui si viveva molto rock and roll, con incoscienza, sopra le righe, nelle discoteche: uno poteva perdere di vista la strada giusta. Per una questione di droga sono stato 5 mesi in carcere in custodia cautelare, ma poi sono stato assolto. Mi è crollata la vita addosso. L’ho pagata cara 27 anni fa, credo di avere dato…

Adesso riparte con nuovi progetti.

Mi piacerebbe creare una factory come Andy Warhol che è uno miei pochi idoli, dove far venire artisti giovani. Prima del lockdown avevo affittato un appartamento in cascina, in precollina, una frazione di Agliè, e sono rimasto lì in quarantena. Ora faccio fatica a tornare Torino. Ecco, il mio sogno è di farne un covo artistico johnsoniano.

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