lunedì 18 marzo 2013
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​Il dramma si addice a Caino. Dai Misteri medievali, nei quali il primo omicida appare come prefigurazione di Giuda, fino a riscritture recenti come l’allusivo Occidente solitario dell’irlandese Martin McDonagh (1997) o l’ellittico Caino di Mariangela Gualtieri (2011), il teatro è il genere che più di ogni altro ha insistito sulla rivisitazione del quarto capitolo della Genesi. Lope de Vega, Metastasio, Vittorio Alfieri: sono soltanto alcuni dei drammaturghi che, nel corso dei secoli, si sono misurati con la linearità severa del racconto biblico. Domina, su tutti, l’impresa quasi luciferina di Lord Byron, il cui Caino (1821) fu lodato da Goethe e insieme scatenò polemiche furiose per l’intuizione, all’epoca intollerabile, di una paradossale innocenza del fratricida. Secondo Byron, infatti, è Caino a scontare veramente il peccato di Adamo ed Eva, che nella loro disobbedienza si sono limitati a cogliere il frutto della Vita, senza assaporare quello della Scienza. Tentato a sua volta da Satana, Caino è colui che ha contemplato la vacuità del cosmo, attingendo così a un sapere disperato. Maledettismo romantico a parte, è lo stesso nodo individuato da Luigi Santucci nel dramma L’angelo di Caino (1956), interamente giocato sul tema del libero arbitrio.Quanta necessità e, al contrario, quanta intenzione sia presente nel delitto dei delitti è la domanda che si ripete nelle interpretazioni moderne della vicenda. Un’ambiguità che si riverbera, ancora una volta, sulla distinzione, all’improvviso controversa, tra vittima e carnefice. È questo il nucleo attorno al quale si sviluppa il Caino del tedesco Friedrich Koffka, che dopo molti anni torna disponibile per il lettore italiano grazie alla bella edizione curata da Eloisa Perone per Claudiana (pagine 84, euro 9). Nato a Berlino nel 1887 e morto nel 1951 a Londra, dove aveva trovato rifugio alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Koffka legò la parte più significativa della sua attività alla stagione sperimentale del teatro espressionista.Caino fu, anche da questo punto di vista il suo capolavoro. Il testo fu scritto nel 1913, venne pubblicato nel 1917 e andò in scena l’anno seguente a Berlino, attirandosi critiche niente affatto benevole. Lo stile scabro di Koffka fu scambiato per artificioso, la finezza del richiamo scritturistico quasi completamente ignorata a discapito dell’ambientazione in apparenza contemporanea, ma situata in realtà in uno spazio fuori dal tempo. Il dramma, infatti, non si svolge nel giardino dell’Eden, ma nell’interno di una casa di campagna. Adamo ed Eva sono contadini laboriosi e uno dei loro figli, Abele, li aiuta prendendosi cura del bestiame. Caino sembrerebbe lo scansafatiche di famiglia, ma la sua scontentezza non è pigrizia. A tormentarlo è semmai una spasmodica ricerca di purezza, che lo induce a strappare la maschera della perfezione dal volto di Abele. Le intemperanze che vengono imputate al ragazzo troverebbero facilmente perdono nella preghiera, ma Caino sa di essere uno di «quelli cui Dio non permette di pregare». Non potendo essere il «guardiano» del fratello, ne diventa il boia, esegue la sentenza con un colpo di scure e poi si congeda da Eva annunciandole il proprio destino di reietto: «Madre, non verrà per me la morte. Madre, sarò ramingo sulla terra, un malvagio. Madre, fuggirò con occhio storto, e griderò...».Nella sua essenzialità, il testo di Koffka sembra quasi anticipare l’interpretazione psicoanalitica di Jacques Lacan, per il quale il gesto di Caino non è altro che il tentativo – peraltro destinato al fallimento – di sopprimere l’immagine ideale di sé. Che tra i fratelli corra un rapporto più complesso della mera contrapposizione è, del resto, la convinzione di Jorge Luis Borges, che nella brevissima prosa di “Leggenda” (in Elogio dell’ombra, 1969) immagina che i due si incontrino da qualche parte, dopo la morte di Abele, senza più ricordare chi fra loro sia l’ucciso e chi l’uccisore. «Dimenticare è perdonare», ammette Caino, confortato dalla massima con cui Abele conclude l’apologo: «Finché dura il rimorso dura la colpa». Non è un caso che, mentre il teatro indugia sul prodursi della ferita, i romanzi ispirati all’episodio cruciale della Genesi suggeriscono spesso la prospettiva di un possibile risanamento. Con qualche eccezione, certo, come il deludente Caino (2009) del premio Nobel José Saramago, dove la questione del fratricidio è sbrigata in poche righe, in modo da lasciare spazio alla stucchevole requisitoria contro un’immagine di Dio dispotica e autoritaria. Il compito di Caino sarebbe quello di vanificare e ridicolizzare l’opera del Creatore, sterminando i sopravvissuti al Diluvio e rendendo così impossibile il divenire della Storia. Caino, però, è il fondatore di città, il progenitore di cui il genere umano rappresenta la discendenza. Per questo in libri come Abel Sánchez di Miguel de Unamuno (del 1917, stesso anno del Caino di Koffka) e più ancora nella Valle dell’Eden  di John Steinbeck (1952) il giudizio rimane sospeso, come se nel narratore subentrasse la consapevolezza che condannare Caino significa, in fondo, condannare noi stessi. Un dubbio che può condurre a una sorta di paralisi morale, ben rappresentata dal Max Gallo di Caino e Abele (2011), ma che in altri casi lascia intravedere lo spiraglio di una pur dolorosa soluzione mistica, come accade nel sorprendente Caino di Paola Capriolo (2012), dove il sangue dell’innocente è misteriosamente assimilato al sangue che Gesù versa sulla Croce.
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