martedì 4 settembre 2012
​Per l'autrice il rumore impedisce di concentrarsi. A dicembre uscirà un disco di canzoni con i suoi testi.
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​Cos’è il tempo, per Patrizia Cavalli? «Una cosa da abolire», riflette in controluce la poetessa e traduttrice nata a Todi. Eppure il tempo non scorre, ristagna. Ci impregna di sé. E ognuno ne è avvolto, come dentro a densa ragnatela. Giorno dopo giorno. Finché, intorno, dappertutto, o solo attraverso il semplice contorno che effondono gli oggetti, i tratti ancora caldi dei volti quotidiani si fanno naturali. Tali da ricordare, forse, per qualche loro assorta consonanza, certe piazze sempre aperte e un po’ deserte, dove più sonori, più intensamente a lungo echeggiano i passi appisolati di chi parte.
 
Ecco, la poesia può rappresentare un valido e durevole antidoto al vuoto? O, paradossalmente, può crearne addirittura qualcuno nella vita del poeta?
«Ma io non cerco antidoti al vuoto, per me è una salute, non una malattia. A farmi soffrire è il troppo pieno. Per buona parte della mia vita sono riuscita a coltivare con notevole successo l’ozio, ma in questi ultimi tempi, non so come, mi ritrovo assediata da una ridicola quantità di piccoli compiti e doveri, cui tuttavia rispondo con molta solerzia sperando che una volta sgomberato il campo io possa ritrovare ciò che fino a non tanto tempo fa era mio: quel salubre vuoto dell’infanzia, fatto pure di noia, da cui nascono i veri pensieri e le parole. Ma ogni piccola porzione di vuoto che a fatica conquisto, si riempie subito di nuovo, quasi avessi a che fare con uno di quei mostri della fantascienza, che più li distruggi e più si moltiplicano. A volte mi viene il sospetto che sia io stessa a far esistere il mostro per una misteriosa inclinazione a sottrarmi alla mia felicità o a rimandarla inventando ostacoli. La prova è che quando sono presa interamente da qualcosa, che sia un amore o lo scrivere poesie, quegli assilli prepotenti e chiassosi diventano piccole cose trascurabili che se ne stanno zitte e buone nel posto che gli spetta».
 
Di quali spazi, interni ed esterni, ha bisogno la poesia perché possa realizzarsi ed essere accolta?
«Il silenzio, il silenzio. Il rumore m’intossica, m’impedisce persino di respirare».
 
Dalla creazione alla pubblicazione: in che percentuale nel nostro Paese un editore determina il successo e la credibilità artistica di un giovane poeta rispetto, ad esempio, alle possibilità offerte a uno scrittore emergente?
«Pubblicare i propri scritti è molto comodo. Tutto quel viavai di correzioni, aggiunte, spostamenti, tagli, dubbi che accompagna ogni scrittura trova pace nel libro stampato, un oggetto portatile, accessibile a chiunque lo voglia comprare. Sì, una vera comodità per chi scrive. Dovrebbe bastare questo a rendere felice il giovane poeta che abbia il suo libro pubblicato da un editore con buona distribuzione. "Credibilità artistica" e "successo" è chiedere troppo, non credo che l’editore possa o voglia fare molto a riguardo. Il genere poesia è per principio genetico escluso dall’agone degli incassi: non è che perde, non partecipa neanche. E quando pure fosse venduto - e a volte lo è, e più di tanti speranzosi romanzi - si tratta di casi aberranti, sbagli di natura che suscitano nell’editore fugaci sorrisetti di bonaria accondiscendenza».
 
Lei ha più volte spiegato come nel suo caso sia stato risolutivo l’incontro con Elsa Morante. Essere entrata nelle grazie della grande scrittrice ha rafforzato la coscienza di quella che fino ad allora era una vocazione poetica non ancora definita?
«Il mio incontro con Elsa Morante non lo chiamerei risolutivo, non avevo problemi da risolvere se non la solitudine, niente in ogni caso che avesse a che fare con le lettere, come la pubblicazione di un libro. Avendole sempre scritte, non davo molta importanza alle mie poesie, era una delle tante cose che si fanno da giovani. E neppure andavo alla ricerca di quel curioso attributo chiamato identità. Ero quel che ero e più che risolvermi desideravo svolgermi: nel canto, nel ballo, nella difesa degli oppressi: grande avvocato ma anche falegname o filosofa. Desideri intensi ma vaghi e mai durevoli abbastanza da poterli definire ambizioni. Sì, avrei voluto anche scrivere romanzi per emulare i grandi romanzieri tra cui mettevo Elsa Morante, ma non ho mai neanche provato a farlo, sapendo di non esserne capace. Come poi sia avvenuto, grazie a Elsa, il mio riconoscimento ufficiale in quanto poeta con tanto di libro stampato, è una storia che non mi va di ripetere, l’ho raccontata troppe volte. Dirò solo che fu lei a decidere che io ero poeta, e che io, per non deluderla, mi sentii obbligata a fare il possibile per diventarlo. Del resto, sono così pigra che senza una qualche costrizione non farei mai nulla».
 
Nel corso di un’intervista ha affermato che le conveniva essere poeta, perché tutti "le volevano più bene". Seguendo il filo della sua esperienza, cosa induce gli altri a voler "più bene" ai poeti?
«Un malinteso, per il quale i poeti sarebbero creature innocue, delicate, bisognose di protezione, distratte da faccende non terrene e senza mai un soldo in tasca: non in gara insomma. Cose in parte vere, ma non nel caso mio. La verità è che gli amici di Elsa, che poi sono diventati anche i miei amici, mi volevano più bene perché mi guardavano con i suoi occhi che, fuori da ogni melensaggine e luogo comune, assegnavano alla poesia e ai poeti uno speciale titolo d’onore e di amabilità».
 
Dopo quell’incontro è cambiato qualcosa nel suo modo di scrivere e di pensare la poesia?
«Ho capito una volta per tutte che quando si scrivono poesie non si può imbrogliare, anche se è proprio lì che può avvenire il maggiore imbroglio».
 
Le parole nominano le cose, le rappresentano. Talvolta, riescono a evocarle con tanta forza da farle sembrare reali. Ma la parola «cielo» potrà mai sostituirsi a un qualsiasi cielo che sovrasta le nostre esistenze? E sollevando il lieve sipario di sillabe e vocali che lo rendono visibile anche alle nostre orecchie, lei, negli anni, che cosa vi ha potuto scorgere?
«Il cielo governa la mia vita, alla lettera. Pensieri, sentimenti, umori e salute, in me tutto dipende dal cielo. Sono una meteoropatica assoluta, ho dovuto per forza occuparmene. È per questo che nelle mie poesie ricorre così spesso la parola cielo, insieme a tutto ciò che gli è proprio e che lo abita: le nuvole, l’azzurro, la trasparenza, il biancore, la foschia, il sole e tutti i gradi della luce. Quando cala la notte, cala anche la mia impressionabilità, il cielo notturno ha meno potere su di me, mi lascia in pace. In questo cielo visibile, fortemente fisico, ho spostato gran parte dei miei primi e più semplici teatri, quelli che appaiono nel libro
Il cielo (Einaudi, 1981, ndr). Ma c’è un altro cielo, invisibile, che più tardi si è aggiunto al primo, e di cui sento la forza anche senza vederlo. Cito una poesia dalla mia ultima raccolta, Pigre divinità e pigra sorte (Einaudi, 2006, ndr): "Quando in mitezza il nostro agglomerato/ cede e lo spirito volatile/ non più tenuto insieme per coesione/ si stacca rapido e si scioglie vago, / quale illusione crederci singoli e reclusi/ noi così esposti al cielo, attraversati". Qui, e ancor più in altre poesie recenti, il teatro si complica, si sdoppia nel corpo mentale che diventa coprotagonista e al tempo stesso ricettacolo inerme di cieche e feroci sopraffazioni che solo la poesia può sanare producendo, per virtù linguistica, figure che hanno un ordine e un limite».
 
Oltre a una attenta e distillata produzione in versi, lei è autrice, tra l’altro, di testi per canzoni, cioè di testi pensati appositamente per essere messi in musica. Potrebbe provare a spiegarci che differenza esiste - di struttura, ritmo, lunghezza, eccetera - tra una poesia e un testo poetico che nasce invece già predisposto ad accogliere il suo rivestimento in suoni?
«Sì, infatti a dicembre uscirà un disco di canzoni con testi miei. Alcuni sono poesie già pubblicate, altri li ho scritti perché diventassero canzoni. Le musiche sono di Diana Tejera, giovane e brava cantante. Per me è stato un vero divertimento farle, anche pensando alla sperata rendita. Che sorpresa però scoprire che è più facile scrivere una poesia che trovare le parole per una data musica. La lingua, qui, si sente costretta a seguire accenti che non sono i suoi. Riesce meglio il contrario, la musica che asseconda le parole. Ma la cosa più entusiasmante è quando parole e musica si formano insieme, senza un prima e un dopo, uscendo come fossero un unico fiato. Sono le canzoni più belle, una specie di miracolo. Io ne ho fatte due così, anche se poi Diana Tejera ha dovuto sistemare la parte musicale».
 
Occasionalmente, le è anche capitato di ispirarsi alle forme in uso nell’arte musicale per elaborare l’impianto generale, l’architettura da dare a una silloge poetica?
«Beh sì, ma per istinto. Inserisco momenti di quiete per non abituare troppo l’orecchio a un’eccessiva tensione, però mi piace finire sempre con un allegro».
 
L'INEDITO
Sono Pallade Atena
ma mio padre è romano
si chiama Giove Pluvio
e io lo chiamo lo chiamo.
Se lui arriva sto bene
se ritarda sto male
io dipendo da lui
lui mi è Pasqua e Natale

Patrizia Cavalli

 

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