martedì 18 agosto 2020
Un’esplosione che sembra uscire dalle viscere della terra solleva la città frantumando vetrine e finestre per un raggio di chilometri, mentre un fungo osceno di fumo oscura il cielo...
Il farmacista Antonio Rodinis fotografò il tragico "fungo" dell'attentato

Il farmacista Antonio Rodinis fotografò il tragico "fungo" dell'attentato

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Un’esplosione che sembra uscire dalle viscere della terra solleva la città frantumando vetrine e finestre per un raggio di chilometri, mentre un fungo osceno di fumo oscura il cielo di un assolato pomeriggio di agosto. Decine di corpi sono scagliati nel mare e pendono dai rami della pineta, molti irriconoscibili, alcuni polverizzati. Sono oltre un centinaio, ma solo a 64 sarà infine possibile dare nome e cognome, per gli altri ci si affiderà ai medici: saranno loro a fare il bilancio dei morti mettendo insieme i pezzi e contando le membra. Un terzo sono bambini…

Non è la Beirut sventrata il 4 agosto di questo 2020, anche se la scena è identica: è Italia, Vergarolla, la spiaggia di Pola. Ed è il 18 agosto del 1946, oggi 74 anni fa. La guerra è finita da tempo, l’Italia è già Repubblica da mesi, è la stessa Italia di oggi. E Pola ne fa ancora parte, anche se le mire del maresciallo Tito non intendono rinunciare alla italianissima città. Sulla spiaggia giacevano da anni i ventotto grandi ordigni bellici ormai del tutto inoffensivi, sono bombe antisommergibile e testate di siluro già da tempo disinnescate dagli artificieri sotto il controllo degli anglo-americani. «Noi bambini ci giocavamo sempre a cavalcioni – racconta oggi Claudio Bronzin, allora 12 anni –, le nostre mamme usavano stenderci gli asciugamani ad asciugare». Ma quel giorno mani rimaste ignote hanno riattivato gli ordigni per farli esplodere nella folla: Vergarolla è dunque il primo attentato terroristico della Repubblica italiana e il più sanguinoso, più della Stazione di Bologna o di piazza Fontana. Il primo di una lunga serie di stragi rimaste senza mandanti e senza giustizia. L’unico però cancellato dalla memoria: mai una corona da un presidente della Repubblica, mai una riga sui libri di storia.

Perché? Riavvolgiamo il nastro.

Il farmacista Antonio Rodinis fotografò il tragico 'fungo' dell'attentato

Il farmacista Antonio Rodinis fotografò il tragico "fungo" dell'attentato - Archivio

Proprio in quei giorni a Parigi le grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale stanno decidendo il destino di Pola e ridisegnando i confini adriatici orientali: Pola sarà abbandonata nelle mani del dittatore jugoslavo o, come già Trieste e Gorizia, si salverà e resterà italiana? La popolazione è ottimista o per lo meno spera nel diritto all’autodeterminazione, le manifestazioni si moltiplicano, e anche quella domenica di agosto migliaia di polesani affollano la spiaggia per una gara sportiva di natura patriottica: si vuole ribadire la chiara volontà di rimanere Italia. Solo tre giorni prima, 15 agosto, la folla si è radunata all’interno dell’Arena romana tappezzata di Tricolori in quello che oggi chiameremmo un flash mob, per cantare il “Va’ pensiero” di Verdi… Ma speranze e ideali si disintegrano sulla spiaggia di Vergarolla e l’esodo di colpo appare l’unica possibilità di salvezza.

Anche Livio Rupillo ricorda bene ciò che accadde quel giorno, subito dopo il pranzo sulla spiaggia: «Avevo sei anni, giocavo sulla sabbia con la mamma. Di lei non si è trovato niente, solo un dito con la vera nuziale». In Foiba erano già stati gettati suo nonno, calzolaio, e suo zio. Poi, a Vergarolla, la mamma uccisa, ma anche l’amichetto Fulvio di 4 anni, i vicini di casa, tutto il suo mondo: «Per anni mi ha ossessionato il disgusto, fino ad allora amavo i gabbiani, ma quel giorno li vedevo buttarsi sui pezzi sanguinolenti nel mare, sugli alberi. Per un bambino di sei anni è uno choc», ha raccontato nel recente documentario L’ultima spiaggia - Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo del regista Alessandro Quadretti, prodotto grazie al sostegno economico del Libero Comune di Pola in Esilio (Aipi-Lcpe). Invece il piccolo Giuseppe Berdini e i suoi amici preferirono vedere le gare più da vicino, per questo erano a bordo di sei barche, in mare aperto: «Prima abbiamo sentito uno sparo, subito dopo c’è stata l’esplosione, e in barca volarono pezzi di esseri umani... I nostri cari erano a riva, in quel momento li perdemmo tutti».

Una celebre immagine di una piccola vittima raccolta sulla spiaggia di Vergarolla dopo l'attentato

Una celebre immagine di una piccola vittima raccolta sulla spiaggia di Vergarolla dopo l'attentato - Archivio

Lo testimoniano in molti quello “sparo” iniziale, in realtà l’innesco che fece esplodere i ventotto ordigni. La strage suscitò un’impressione fortissima, la stampa mostrò immagini orrende (notissima la foto della bimba decapitata, raccolta da un soccorritore), gli Alleati aprirono subito un’inchiesta e le indagini, coordinate dalla polizia britannica di Scotland Yard, appurarono facilmente che l’attentato era doloso, contro la tesi sostenuta da ambienti jugoslavi che parlava di “incidente”: gli ordigni non avrebbero potuto assolutamente esplodere, erano stati riattivati apposta con l’ausilio di detonatori a tempo. Eppure presto la strage cadde nel silenzio e il perché lo spiega Lino Vivoda, tra le vittime il suo fratellino: “Tito era allora il necessario contrappeso all’altro comunismo, quello di Stalin, per questo era blandito dagli Alleati e dall’Occidente, Italia compresa. La ragion di Stato affossava la giustizia e i morti di Vergarolla morirono una seconda volta”. D’altra parte il contesto in cui si inserisce l’attentato dimostra l’escalation di azioni violente che lo prepararono, bastano due esempi tra tanti: due mesi prima, nel giugno del ’46, militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile, mentre la domenica precedente la strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio, sarebbe stata un’altra carneficina… per la quale bisognerà attendere solo pochi giorni. Dagli archivi di Londra un documento dell’epoca attesta la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva”: Pola deve svuotarsi, a tutti i costi la città deve diventare slava.

Insomma, Vergarolla è non solo il crocevia degli scenari mondiali post bellici che si stanno delineando, ma addirittura la palestra per la ormai prossima guerra fredda, oltre che il prodromo dello stragismo italiano dei decenni a seguire: è una pagina troppo importante per finire così nel silenzio, eppure nessuno ancora oggi ne parla. “Per questo chiediamo da tempo che la Commissione parlamentare stragi si occupi finalmente della tragedia di Vergarolla, come accade per tutte le altre stragi della storia italiana, e faccia luce su quanto accadde”, dichiara Tito Sidari, presidente di Aipi-Lcpe (Associazione italiani di Pola e Istria – Libero Comune di Pola in esilio). Sono ancora in vita numerosi sopravvissuti, con i loro netti ricordi: se non ora, quando? Inoltre negli ultimi anni due giovani storici sono andati a scavare nei documenti segreti conservati negli archivi di mezzo mondo: William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato in quelli di Belgrado, Gaetano Dato ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. “Più passano gli anni e più difficile sarà determinare i fatti”, continua Sidari, “ma intanto l’Italia riconosca ufficialmente in Vergarolla il primo attentato terroristico della nostra Repubblica. Poi si penserà ad indagare sulle responsabilità, ma iniziamo almeno a ricordarci che è avvenuto, come si fa negli anniversari di tante altre stragi sebbene impunite”. La stessa richiesta arriva da Federesuli e dal Comitato Familiari Vittime giuliane, istriane fiumane e dalmate: “Vergarolla è solo la prima di tante stragi impunite avvenute in Italia, ma è l’unica consegnata all’oblio. Come avviene per la ricorrenza delle altre, che almeno si commemori la memoria dei morti e il dolore mai sopito delle nostre famiglie”.

Antonio Riboni, fondamentale la sua testimonianza diretta, fino ad oggi l'unica che provi la matrice jugoslava della strage di Vergarolla

Antonio Riboni, fondamentale la sua testimonianza diretta, fino ad oggi l'unica che provi la matrice jugoslava della strage di Vergarolla - Archivio

Un apporto fondamentale alla ricostruzione dei fatti è arrivato nel 2016 proprio dalle pagine di Avvenire, che nel settantesimo anniversario di Vergarolla ha raccolto per la prima volta la testimonianza di un esule polesano in Australia: “Mia madre non ha mai smesso di confidarmi per tutta la vita la storia di suo fratello, mio zio Antonio Riboni, morto a 33 anni perché non sopportava più il peso della coscienza...”, ci ha detto Claudio Perucich, partito da Pola a sette anni nel 1949, due anni dopo il massiccio esodo di italiani che nel 1947 svuotò la città lasciandola agli jugoslavi. “Mio zio era di ideali socialisti”, era anche lui membro di quella gioventù che per ideologia comunista si affiancava ai partigiani di Tito, “ma non per questo era disposto a tradire l’Italia e a caldeggiare l’annessione dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia, come invece altri italiani obbedienti a Togliatti». Il pomeriggio della strage anche zio Antonio era a Vergarolla per una nuotata. Quando vide tanta folla seduta attorno alle mine, suggerì agli amici che erano con lui di allontanarsi da lì, salvando loro la vita… “Mio zio conosceva gran parte delle oltre cento persone rimaste uccise, era tutta gente nostra e questo lo devastò dentro. Voleva sapere, voleva capire chi era stato, se davvero c’entravano i suoi compagni di fede politica, così iniziò a indagare nei suoi ambienti, essendo lui connesso al comando filo titino di Pola…”.

Proprio per questi suoi legami, e per aver stranamente suggerito agli amici di allontanarsi dagli ordigni nonostante tutti sapessero che erano disinnescati, lui stesso entrò nella lista dei sospetti del governo militare alleato che aveva aperto l’inchiesta. Ma “di nascosto dai compagni di partito mio zio continuò a indagare, finché ottenne la verità che cercava e quello che seppe lo lasciò distrutto», ci ha rivelato il nipote. «Erano proprio stati loro, i suoi compagni di ideologia. Anche se lui era innocente, si sentì in parte responsabile e perse la voglia di vivere...». La sua coscienza non resse. Prima di impiccarsi, rivelò tutto alla sorella, ammonendola di non riferire a nessuno ciò che aveva scoperto, pena minacce di morte per tutta la famiglia, “anche se quei suoi compagni di ideologia erano stati suoi amici fin dai tempi della scuola». Insomma, «i mandanti a Vergarolla furono i membri della gerarchia titina presente a Pola in quel primo dopoguerra. E tra di loro, purtroppo, anche nomi di vecchi polesani italiani, alleatisi con Tito per ideologia comunista», ha spiegato Perucich ad Avvenire. “Dopo settant’anni finalmente mi sono sgravato anch’io di un peso che non sopportavo più”.

Anche oggi come ogni anno nel Duomo di Pola i parenti delle vittime e una rappresentanza di italiani esuli e rimasti si sono ritrovati per la Messa in suffragio delle vittime e hanno posto la loro corona sulla lapide che ricorda i 65 morti riconosciuti. Tra questi anche i due bambini del medico eroe Geppino Micheletti, chirurgo dell’ospedale cittadino che per oltre 24 ore continuò a operare i feriti e salvare decine di vite nonostante la notizia della morte dei suoi piccoli (di uno fu ritrovato il corpo, dell’altro solo una scarpina, per tutta la vita conservata nel taschino del camice bianco quando entrava in sala operatoria).

Il dott Micheletti (primo a destra vestito di scuro) porta la bara dei suoi due bambini (di uno si trovò solo la scarpina)

Il dott Micheletti (primo a destra vestito di scuro) porta la bara dei suoi due bambini (di uno si trovò solo la scarpina) - Archivio

In occasione del Giorno del Ricordo del 2018 l’allora ministra della Salute Beatrice Lorenzin annunciò il tanto atteso conferimento della Medaglia d’oro della Salute al dottor Micheletti, ma da allora il tutto è rimasto nelle buone intenzioni. Senza seguito, purtroppo, anche l’inedita e affollata commemorazione alla Camera voluta nell’estate del 2014 dalla senatrice Laura Garavini: certamente ha contribuito a squarciare la cortina del silenzio, ma purtroppo non si è più ripetuta. Avrebbe dovuto inaugurare un nuovo corso, in realtà anche oggi attorno al cippo di Pola la solitudine assoluta dei sopravvissuti e dalle Istituzioni italiane nemmeno un telegramma.

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