venerdì 23 novembre 2018
Con tre bambini piccoli, andare al mare era un'epopea. Il bagagliaio che esplodeva di passeggini, culle, ombrelloni; i tre, legati ai seggiolini, che brandivano impazienti il fucile ad acqua. Il coccodrillo di gomma già gonfiato, e chiamato per nome, fra le loro braccia. Mio marito e io ci dopavamo di caffè da un thermos. La truppa, dietro, litigava per il possesso del coccodrillo. E uno aveva nausea, l'altro fame, all'altro scappava. Improvvisare, per tenerli buoni, folli improbabili fiabe. I Beatles li calmavano. Ascoltare, dunque, all'infinito Yellow submarine, cantando tutti insieme.
Arrivare al mare dopo cinque ore, noi due cotti, i tre in gran forma. Scaricare sotto il sole a picco una piramide di valigie. Scoprire che la casa è invasa dalle formiche. Correre a fare la spesa, scaricare un'altra piramide, accorgersi che la bombola del gas è finita.
E finalmente, al tramonto, al mare, noi cinque e il coccodrillo. I bambini per mezz'ora quieti a trivellare la sabbia, noi due a contemplare la striscia blu del mare. (Dubitando fra me che, partito il marito, un mese da sola con quei tre mi avrebbe distrutto).
Non farò più vacanze così. Ma quanto rivorrei, se potessi scegliere il mio paradiso, quelle affannate estati al mare. Quelle sfiancanti, meravigliose estati, cantando Yellow submarine.
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