mercoledì 31 gennaio 2018
Mi chiedo spesso la ragione per cui gli spazi vuoti presenti nelle città, ai margini ma anche al centro, suscitino in me tanto fascino: più che nel senso predicato da Marc Augé, non-luoghi in grado di proteggere e consolare la nostra fragilità identitaria, dal centro commerciale all'aeroporto internazionale, zone franche dove la frenetica attività quotidiana conosce una tregua: l'ufficio deserto, la scuola chiusa, lo stabilimento abbandonato, la caserma sprangata, il cantiere dismesso. Il binario interrotto nelle stazioni di scambio. Il magazzino senza merci. L'appartamento privo di mobilia in attesa di essere venduto. Il cortile pieno di erbacce. L'asfalto screpolato nei campi dove l'accesso è vietato dentro gli spartitraffico delle autostrade. In tutte questi posti vorrei entrare di soppiatto e trascorrere magari la notte in attesa che venga giorno. A volte l'ho fatto e ho conosciuto guardiani, personale delle pulizie, barboni, vigilanti. Erano persone ferite, spesso senza darlo a vedere, come se avessero assorbito il peso del tempo in quegli ambienti più forte che altrove e questo gli fosse costato abbastanza. Senza il rumore degli ingranaggi del motore che manda avanti la baracca, restiamo allo scoperto. Siamo vulnerabili ma chissà, forse con una consapevolezza nuova.
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