venerdì 31 gennaio 2020
Ho sulla mia scrivania tre libri di giovani narratori italiani impressionantemente ponderosi. Enrico Palandri ha raccolto in un volume Bompiani sei romanzi con il titolo unico di Le condizioni atmosferiche, 800 pagine che ripercorrono «40 anni di storia privata e di storia sociale» (per la verità più privata che sociale, ma nella convinzione che la propria storia sia di per sé rappresentativa della storia di tutti). Giorgio Fontana ha scritto un Prima di noi di 896 pagine (Sellerio) nella convinzione che la storia della sua famiglia sia rappresentativa della storia di tutti. Più contenuta ma non meno ambiziosa Valentina Maini, un'esordiente, ha invece elaborato una sorta di romanzo storico ambientato tra i Paesi Baschi e Parigi tra il 2007 e il 2015 di “solo” 492 pagine, La mischia (Bollati Boringhieri), e qui il romanzo è romanzo, avulso, si direbbe, dalla storia di famiglia (nel 2007 l'autrice aveva vent'anni). Non so quando troverò il tempo di leggerli, e francamente non ne sento il bisogno. L'arte del romanzo storico mi sembra in crisi da tempo, e quella del romanzo famigliare, radicato nel presente e nell'immediato passato, dovrebbe avere una sostanza e una necessità che è oggi difficile da ottenere, se neppure gli storici e i sociologi e gli antropologi di mestiere riescono a dar conto, in modi essenziali, della complessità di più successive mutazioni. C'è qualcosa di irritante e di megalomane nella persuasione dei giovani scrittori (molti dei quali ormai nella mezza età) di dir tutto e su tutto “a partire da sé”, e per di più di dirlo in un profluvio di pagine, che temiamo prive della sostanza di una riflessione adeguata (e tanto meno della trascinante capacità di affabulare sulla storia passata che fu dei Conte di Montecristo o dei Via col vento, riproposto in nuova traduzione proprio in questi giorni da Neri Pozza, o anche del Nome della rosa. Sappiamo bene che oggi l'importante, per gli editori, non è vendere ma far circolare denaro secondo i dettami della nuova economia o finanza, e mantenere l'illusione di editori redattori festival autori di “fare cultura”, di stare insomma nella storia. (E nella storia ci stiamo, peraltro, tutti noi viventi...) Sul senso del romanzo storico oggi ci sarebbe molto da dire, ma mi pare piuttosto il caso di ricordare quel che scrisse Italo Calvino fondando per Einaudi, nel 1971, una collana di non lunga vita che chiamò “Centopagine”. Romanzi brevi o racconti lunghi, più o meno di cento pagine, scrisse, «atte a facilitare la lettura nelle giornate meno distese della nostra vita quotidiana», e semmai invitanti alla lettura delle opere più lunghe degli stessi autori. Riteneva che di tempo per leggere ce ne fosse sempre di meno, nella convulsa vita della modernità. Per alcuni, per tanti, è certamente così, ma non è evidentemente così per i tanti scriventi di oggi (tra i quali, di rado, anche scrittori di qualche sostanza) e per i loro editori.
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