mercoledì 29 novembre 2006
La medicina crea persone malate, la matematica persone tristi e la teologia peccatori. Se si guarda all'edizione tedesca, detta «di Weimar», delle opere di Lutero, c'è da rimanere sbigottiti di fronte a quel piccolo oceano di pagine e di tomi. Perciò mi resta solo la scelta di fidarmi, quando trovo in un articolo che sto leggendo questo aforisma come attribuito al grande Riformatore. Pur col paradosso tipico dei motti sintetici, c'è in esso un'importante verità. La competenza non è di per sé principio di salvezza o di certezza. C'è chi s'ammala proprio per colpa di terapie forse anche altamente calibrate; c'è chi si scoraggia mettendosi di buona volontà a studiare le scienze per capire, e c'è il teologo che personalmente traligna o crea sensi di colpa in altri o li fa sbandare lungo percorsi impervi. Proprio per questo, ferma restando la necessità della razionalità contro ogni irrazionalismo magico, contro cure da stregoni e contro devozionalismi visionari, è importante distinguere tra sapere e sapienza. Si può essere colti ed eruditi a livello alto, eppure incapaci di spiegare e di comprendere in profondità la verità e l'autenticità delle cose. La sapienza è, invece, una dote che è, sì, frutto di studio, ma è anche dono; è impegno di ricerca intellettuale, ma è anche maturità personale; è nitore di pensiero, ma è anche calore di passione. Non per nulla in latino sàpere significa «aver sapore» e studère è «appassionarsi». Su questo crinale si misura la vera cultura, ma anche la genuina ricchezza interiore di una persona. Ed è solo per questa via che si può diventare maestri, anche senza avere i titoli accademici.
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