venerdì 26 gennaio 2018
Enrico Franceschini, giornalista culturale a “la Repubblica”, ha raccolto per Laterza 40 interviste fatte nel corso degli ultimi anni a 40 scrittori quasi tutti inglesi, con qualche americano e israeliano e russo. Ci sono tra loro alcuni giganti, da Amoz Oz a J. G. Ballard, da Solzenitsyn a Yeoshua, e molti sconosciuti che dapprima incuriosiscono e poi risultano appartenere a specie conosciute e abbondanti, quelli che la Morante avrebbe definito «scriventi» e non «scrittori». Per tutti o quasi la scrittura sembra venire prima della vita, come ben riconosce il titolo del libro: Vivere per scrivere, dove il “per” è debitamente corsivato. Ne deriva per chi legge queste dichiarazioni, per chi legge la storia di queste vocazioni, una perplessità, una sorta di vasto sconforto. E se infatti questa dello scrivere – un'attività che mai nella storia passata è stata così massiccia, così invadente e così sfrenata come è oggi – non fosse che un'ennesima “astuzia del capitale” (se spontanea o calcolata non importa), mirante alla perpetuazione di un dominio, di una sudditanza? Se scrivere fosse ormai un altro modo di «aiutare le masse», oggi in buona parte alfabetizzate, diplomate e laureate in molti paesi soprattutto “occidentali”, a non pensare invece che a pensare, a non guardare in faccia i problemi enormi del presente, le sue disparità, i suoi orrori, a trovare gratificazioni secondarissime che niente incidono sulla realtà, sulla vita, se non in direzione dell'accettazione del mondo così com'è? Appartengo anch'io alla schiera dei “lettori forti”, appartengo anch'io alla schiera degli scriventi e pubblicanti, anche se ho sempre provato più piacere a far scrivere gli altri che non a scrivere io e ho preferito occuparmi di riviste, come uno strumento di formazione di gruppo, come rete di persone che scrivono di ciò che fanno. Per una sete di collegamenti e in vista di comportamenti, di modi di essere e di agire. Non mi tiro fuori dal gioco, ma questo non toglie che non si debba guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona), e alla scrittura e alla lettura come a “droghe” non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma, più pericolosamente, si può diventare anche più acquiescenti all'andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone, anche se pensiamo il contrario, dei complici passivi. Complici del tremendo andamento della storia, di questa storia. Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, il rischio è grande che si trasformi in chiacchiera, in ciarla, in evasione. E, a ben guardare, in colpa.
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