giovedì 14 maggio 2020
In questo microambiente che ci si forma attorno in casa nell'Italia del lockdown, nella quiete cui personalmente non cerco di sfuggire, mi pare che si reimparino meccanismi che avevamo dimenticato. Per esempio: quand'ero bambina nella casa delle vacanze in montagna la padrona si chiamava Giuditta, e aveva oltre novant'anni. Gonne lunghe nere, grembiule bianco, i capelli candidi raccolti con le forcine in uno chignon. Unica lingua, l'ampezzano. Sapeva forse leggere e scrivere, sei figli aveva avuto, mai era uscita dal suo paese nativo. Io, avevo 5 anni. Mi piaceva andarla a trovare nella vecchia cucina con i rami lucenti appesi alle pareti, la pendola che batteva il tempo lento dell'estate, e i mazzi di tarocchi, con cui Giuditta faceva i solitari. La sera, seduta sulla panchina davanti a casa, a volte Giuditta scuoteva la testa: «Cambia il tempo», borbottava nel suo dialetto, che io un po' ormai capivo. Mi guardavo attorno, nella limpida sera di luglio non una nuvola. «Viene a piovere», insisteva lei, sicura. E figli e nipoti le credevano: l'indomani non si sarebbe tagliata l'erba, né raccolto il fieno. La mattina dopo, prima ancora di alzarmi, lo scroscio della pioggia sul giardino confermava la profezia di Giuditta. Non sbagliava mai. Una maga? mi chiedevo io, pensando alle strane figure dei suoi tarocchi. Ma in questa pace di una primavera serrata in casa, ora che ho sessant'anni, libera dall'ansia di andare, fare, partire e tornare, mi sono accorta di come leggermente ma percettibilmente le ossa a una certa età "bruciano", quando sta per cambiare il tempo. Prima mandavo giù un'aspirina, e non ci pensavo. Solo ora, dentro una primavera prigioniera, ho scoperto il segreto di Giuditta. (Chissà di quante altre cose antiche non mi sono mai accorta, sospinta nel torrente della fretta coatta in cui sono cresciuta).
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