sabato 21 settembre 2019
Non è certo una novità che Papa Francesco abbia particolarmente a cuore il tema di quale debba essere lo stile di un vescovo. Il suo modo, cioè, di porgersi e di stare in mezzo alla gente, il suo modo di parlare e di vivere, il modo in cui guidare la sua diocesi. Ma, appunto, nonostante non sia una novità, così come il suo predecessore Benedetto, Bergoglio non perde mai l'occasione per ribadire quei principi, a sottolineare ancora e ancora, quasi fino allo sfinimento, quanto tale questione sia fondamentale per la vita della Chiesa. Ed ecco così che la settimana scorsa, ricevendo i vescovi di nuova nomina, ha riassunto nel termine "semplicità" tutto ciò che serve per essere un buon vescovo. Una parola semplice, che fa rima con "povertà" e "sobrietà" e che si traduce nella "vicinanza" ai fedeli che non è "retorica".
Nel mirino di Francesco non c'è solo il carrierismo, tentazione sempre in agguato, o la vanità: «È brutto – ha detto Francesco – quando un vescovo abbatte dei ponti, semina odio o sfiducia, fa il contro-vescovo». Se non si vuole diventare diventare superbi e lontani dal popolo la strada da seguire è quella della "vicinanza", perché «pur nella nostra povertà, sta a noi che nessuno avverta Dio come lontano, che nessuno prenda Dio a pretesto per alzare muri, abbattere ponti e seminare odio».
E così essere «vicini al popolo» vuol dire «immedesimarsi col popolo di Dio, condividerne le pene, non disdegnarne le speranze. Essere vicini al popolo è avere fiducia che la grazia che Dio fedelmente vi riversa, e di cui siamo canali anche attraverso le croci che portiamo, è più grande del fango di cui abbiamo paura». Perché la missione del vescovo è non tanto parlare, ma innanzitutto di «annunciare con la vita una misura di vita diversa da quella del mondo: la misura di un amore senza misura, che non guarda al proprio utile e ai propri tornaconti, ma all'orizzonte sconfinato della misericordia di Dio». È insomma il modo in cui il vescovo si propone, il suo esempio concreto e quotidiano a fare la differenza, la loro capacità di proporsi ogni giorno «per la Chiesa e per il mondo» come «"sacramenti" della prossimità di Dio». Infatti, senza questa «confidenza personale» con Dio e con i fedeli, senza «questa intimità coltivata ogni giorno nella preghiera, anche e soprattutto nelle ore della desolazione e dell'aridità... si sfalda il nucleo della nostra missione episcopale», quando invece «solo stando con Gesù veniamo preservati dalla presunzione pelagiana che il bene derivi dalla nostra bravura. Solo stando con Gesù giunge nel cuore quella pace profonda che i nostri fratelli e sorelle cercano da noi».
Il vescovo deve essere dunque sempre pronto a sporcarsi le mani, fidando nel sostegno del Signore, senza mai «lasciare le persone in attesa e non nascondere i problemi sotto il tappeto». Non servono «pastori che non si accontentano di presenze formali, di incontri di tabella o di dialoghi di circostanza». Vivere con semplicità vuol dire, in ultimo, «testimoniare che Gesù ci basta e che il tesoro di cui vogliamo circondarci è costituito piuttosto da quanti, nelle loro povertà, ci ricordano e ripresentano Lui: non poveri astratti, dati e categorie sociali, ma persone concrete, la cui dignità è affidata a noi in quanto loro padri. Padri di persone concrete; cioè paternità, capacità di vedere, concretezza, capacità di accarezzare, capacità di piangere».
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