mercoledì 20 dicembre 2023
Ho letto in questi giorni una lettera dello scrittore Jack London. La scrisse con le viscere, quando aveva vent’anni, la mattina di Natale del 1898. Il Natale – confessa – lo obbliga a scambiare il vagabondaggio errante della sua natura con i noti protocolli delle celebrazioni domestiche. In mezzo ai rituali familiari egli scopre di essere sempre più un estraneo, e tutto quello che dovrebbe tranquillizzarlo lo fa sentire, invece, sopraffatto. Lui che aveva passato l’adolescenza a saltare da un centro di rieducazione all’altro, e che per sopravvivere aveva fatto lo strillone, il pescatore di frodo, l’agente assicurativo, il pugile e il cercatore d’oro, lui, uomo dal carattere duro, quella mattina si sente vacillare. C’è una domanda che non arriva a verbalizzarsi, che pare anzi fuori contesto rispetto allo scintillio dei messaggi augurali che ci scambiamo, ma che è forse il reale approccio al mistero dell’uomo (e al mistero di Dio). E quella domanda è: “Perché il Natale fa soffrire?”. Sì, perché non ci placano completamente i simboli, con il loro discorso incandescente; perché le tradizioni ci consolano appena per qualche momento; perché fare il presepio ci appesantisce e disarma; perché la contemplazione di quel bambino restituisce, a noi adulti, induriti come Jack London, la coscienza di quanto siamo insufficienti, indigenti, lacerati e soli davanti alla consumazione ultima del nostro destino? © riproduzione riservata
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