giovedì 4 ottobre 2018

Lì per lì quando ti dicono «Lei ha la Sla» è come prendere un treno in faccia. Neppure hai la forza di reagire. Io, almeno, non l'ho avuta. Neanche per lamentarmi, neanche per piangermi addosso. Tutto troppo grande, troppo improvviso. C'è tutta un'esistenza da riorganizzare, e come ho, abbiamo imparato presto, quello che oggi sembra andare bene, essere funzionale alle tue nuove esigenze, domani non serve più. E domani può significare proprio domani, nel senso di 24 ore, perché la progressione della malattia sa essere spietatamente veloce. Non a caso ho detto "abbiamo imparato", perché a dover essere riorganizzate sono le esistenze di tutta la famiglia, visto che avere in casa un malato di Sla non è una passeggiata.
All'arrivo di quel treno in faccia la reazione più pronta è stata quella di mia moglie Cri. Che, come si dice, ha preso il toro per le corna: «Ok, sappiamo che abbiamo di fronte, e adesso gliela facciamo vedere noi». Quando le sentii pronunciare questa frase, dissi «certo», ma dentro di me mi sentivo vuoto. Dovemmo ovviamente dirlo alle nostre figlie, Giulia e Camilla, e non fu facile né dirglielo né – per me – guardare i loro occhi per molti giorni successivi. Per dirla tutta: mi lasciai andare. Smisi di fare la faticosa fisioterapia che, dal luglio precedente, mi impegnava quasi tutti i giorni, e tante altre cose che mi stancavano oltre ogni ragionevole limite. Tanto, mi dicevo, non serve a nulla. Con lo stesso spirito iniziai a prendere le medicine, anzi l'unica medicina esistente per la mia patologia, il Riluzolo, che se riesci a sopportarne bene o in maniera accettabile gli effetti collaterali può allungare la vita due-tre mesi; e il fatto che, dai primi controlli, venisse fuori che io ero tra quelli che non sopportavano bene quegli effetti collaterali non aiutava certo il mio umore.
Per settimane non sono riuscito a dormire, fissando il buio delle notti e ripetendomi sempre la stessa domanda: «Quando?». Fino alla fine di aprile, quando una notte capii che quella strada non portava da nessuna parte. Non ci portava me, né mia moglie e le mie figlie. E nessuno che mi stesse attorno. C'erano un sacco di cose da fare e che andavano fatte. Ripensai a quella frase detta da mia moglie, al fatto che gliela avremmo fatta vedere. E sì, aveva ragione. Fissavo sempre il buio, ma questa volta senza domande. Solo: «E va bene, vediamo adesso chi ha la testa più dura». E quella notte, finalmente, sono tornato a dormire.
(Avvenire.it/rubriche/slalom)

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