La critica d'arte? È un sapere non una scienza
venerdì 29 giugno 2018
Nella nostra critica d'arte militante e soprattutto come recensore di mostre, oggi Maurizio Cecchetti si distingue per un'onestà problematica che mi sembra in via di sparizione. Leggendo il saggio introduttivo al suo nuovo libro, Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (Edizioni dell'Asino, pagine 314, euro 18,00), non si può non tornare a riflettere sul rapporto fra opere d'arte e critica. Per quanto ogni arte abbia il suo medium formale e la sua specifica tradizione, il critico si trova davanti agli stessi interrogativi. Quanto è spiegabile un'opera d'arte? In che misura può essere criticamente parafrasata e compresa? Perché nell'arte c'è sempre qualcosa che ci sfugge? Perché è bene, è giusto che sia così? Fin dove arriva l'analisi formale e linguistica? Come definire o non definire il quid che lega arte e vita? Che cosa cerchiamo e troviamo nelle opere d'arte, anche in quelle mediocri o non riuscite? Secondo Cecchetti (che cita Rémy de Gourmont, Oscar Wilde, Aby Warburg, Bergson e Heidegger) «non c'è nulla che nuoccia alla critica più del metodo che vuole sezionare l'opera secondo principi linguistici, semiologici, formalistici ovvero ideologici». La critica, benché sia un sapere, non è una scienza. È un incontro con la “presenza reale” di un'opera, un incontro che può avvenire o non avvenire. È il resoconto sempre approssimativo, occasionale, provvisorio, per tentativi, di un'esperienza in cui l'oggetto d'arte rivela i suoi legami plurimi, variabili, inesauribili, con la vita di cui avevamo o non avevamo esperienza personale e diretta. Quando critici come Roberto Longhi o Giacomo Debenedetti, Auerbach o Gombrich interpretano un quadro o un libro, succede qualcosa che fino a un momento prima era solo potenziale. In questo senso l'evento artistico che ha prodotto un'opera trascende gli “strumenti critici” professionali del filologo e dello storico. Nel formalismo degli studi retorici e nella didattica delle scuole di scrittura creativa l'arte è ridotta ad arte combinatoria di elementi e metodi costruttivi ereditati e prefabbricati. Ogni arte è ovviamente (e richiede) una tecnica. Ma la tecnica si attiva, si mette in moto, si anima e si trasforma nel momento in cui qualcosa di nuovo avviene nel rapporto fra esperienza, energia vitale e forma. Tutti hanno bisogno di arte, di qualche forma complessa o banalizzata di arte. Per questo oggi l'arte è dovunque, è iperprodotta e consumata, è disponibile dovunque e subito. Eccita o calma ma non trascende il già saputo e le dominanti consuetudini sociali. È un'arte inutile? Più precisamente, quest'arte ubiqua è utile a fare in modo che nella testa di chi la consuma tutto resti come prima.
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