venerdì 25 maggio 2018
Ascolto e leggo con fastidio dibattiti e memorie sul '68, le opinioni di chi c'era e vi ha preso parte, sia di chi non c'era o l'ha visto di straforo per ragioni di scelta o di età. Mi sembrano egualmente superficiali, opportunistiche: parlano in realtà dal punto di vista di un "oggi" fitto di compromessi. Questi punti di vista non corrispondono a quelli di chi c'è stato dentro attivamente, come a un'epoca di grandi speranze. Il '68 esplose alla fine di un periodo di straordinarie trasformazioni: il risveglio dell'Africa, la vittoria algerina e la tragedia congolese, la rivoluzione cubana e il suo seguito di guerriglie latinoamericane, la rivoluzione culturale cinese, la guerra del Vietnam, il movimento nero negli Usa (tra Malcolm X e Martin Luther King: un confronto di metodi, sui modi di una rivolta, ma non sulla sua necessità), gli studenti di Berkeley e gli hippies e i beat, il cinema e il teatro delle nouvelle vagues da Parigi a Tokyo, da Rio a Praga, da Manila a Mosca... Il '68 è il punto culmine di un'epoca, le cui speranze moriranno già nel corso dell'anno, col ritorno dei movimenti alle forme tradizionali di organizzazione politica. Ma non è solo la giovane età degli studenti in lotta, sono anche le enormi richieste di cui vasti strati di popolazione gli rivolsero a rendere difficile l'assunzione di responsabilità più gravi. Un bel film di montaggio di Chris Marker, Le fond de l'air est rouge (in Italia circolò solo il libro che Marker ne trasse, col titolo di Scene della terza guerra mondiale, Feltrinelli), sulla storia delle novità degli anni post-bellici fino a tutti i Settanta, divise questa storia in due parti: Le mani fragili (quelle dei movimenti, e oggi si può leggere quel "fragili" anche per moralmente fragili, non solo politicamente; quelle del '68, per l'età dei suoi membri), e la seconda Le mani tagliate, da sistemi di potere che reagirono alle rivolte con la brutalità delle armi ma anche inventando nuovi modi di governare, di manovrare la Storia. E sarebbe interessante rileggere le disperate cronologie che precedono ogni capitolo del capolavoro della Morante, 1974, Mondo salvato dai ragazzini che donò al '68 la visione più pura. Di questo, molti soloni del giornalismo attuale preferiscono non parlare, e se i reduci, con i loro auto-incensamenti, finiscono per risultare peggio che antipatici anche perché si sono seduti e "conformati" da tempo, non meno antipatico è chi, al servizio dei vincitori, denigra le speranze di un tempo dimenticando che la non-accettazione di un mondo tremendo è un dovere: il fine è sempre importante ma lo è altrettanto la scelta dei mezzi. Ma ricordando cosa diceva Gandhi (e prima san Paolo) che, di fronte alla violenza della storia, il peggio è essere vili, tiepidi. Non è entusiasmante, il punto di vista di chi si è arreso o ha cambiato casacca.



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