domenica 27 maggio 2018
Cosa c'è di più raffinato dell'assaporare l'ala o la coscia di un uccello che è l'ultimo esemplare della sua specie? Certo, ha meno carne di un pollo d'allevamento. Ma, quel poco di carne lo esaltiamo col sale delle nostre lacrime, lo gustiamo col palato del nostro spirito. I piaceri di quel pasto sono aumentati dalle gioie della scienza e le profondità del lutto. Ero stato ammesso nella piccola cerchia dei privilegiati il cui ufficio liturgico era di consumare tutto ciò che restava sulla faccia Terra dello storno dal ventre d'oro. Eravamo sulla piazza principale. L'ultimo maschio e l'ultima femmina erano stati arrostiti sull'immensa griglia a forma di enciclopedia. Gli altri Flumi assistevano al pasto mormorando invocazioni a Lumos. Lo storno aveva trovato infine il riposo, ripetevano. «Ascoltate come croccano gli ossicini sotto i vostri denti: è tutto un mondo che crolla. È anche il sapere che giunge al suo compimento. La luce della conoscenza giunge a piena chiarezza solo quando la cosa si è spenta. Scomparsa dal mobile e dall'imprevedibile, essa può ora stare nelle pagine dei nostri trattati dove la commentiamo senza fine… Guardate la mia assistente…». La giovane donna stava bevendo un uovo che aveva scovato nell'albero. Mangiava con una devozione che non avevo riscontrato negli Zego che masticano il loro chewing-gum. Dava mostra non di una sola figura, ma di molte sovrapposte, fuse una nell'altra, istante per istante. Era una piangente, una gastronoma, una scienziata in piena ricerca, una carmelitana in preghiera, un boia che esegue il condannato, una madre che si lamenta su un figlio morto… Con ogni evidenza, poche attività umane offrono un tale concentrato di emozioni forti. Direi anche che dare il tocco finale a un'estinzione, e custodire religiosamente in sé la memoria della specie sradicata, è un coronamento sia della stretta obiettività maschile che del romanticismo femminile. «Quest'uovo che la mia assistente strapazzerà con tutto il guscio, quest'uovo avrebbe potuto dare un nuovo piccolo storno, e forse, forse, far ripartire la danza di queste macchie d'oro tra i rami… Ma per quanto tempo ancora? Dieci? Venti? Cent'anni? A che pro, se la distruzione è inevitabile? Tanto vale precederla, lasciandone l'impronta nel marmo. Ecco! Ha preso dentro di sé il peso del destino. Ha appena ingoiato l'ultimo uovo. È finita. Lo storno dal ventre d'oro vola ormai nei nostri libri, nel firmamento azzurrino della nostalgia… Non ingannatevi. Quella nostalgia non è rimpianto del passato. È speranza, speranza della Ricapitolazione eterna». All'improvviso l'assistente emise una serie di gridolini. Erano come miagolii in cascata, brevi, acuti, di una tristezza mortale. La sua lamentazione era tuttavia troppo affettata per essere espressione spontanea di dolore. Altri scienziati si misero a miagolare di concerto, riprendendo esattamente lo stesso schema melodico e ritmico. «Il canto dello storno dal ventre d'oro. Il nostro gruppo sa imitarlo perfettamente. Abbiamo sviluppato una tecnica di notazione musicale che permette di inciderlo nella pietra». Una volta i Flumi non erano i becchini della Natura. Una volta non abbattevano l'albero prezioso per innalzargli un memoriale, non soffocavano il canto di un uccello in pericolo per ricordarlo in un elogio funebre. Secondo la loro cosmologia, tre furono le Età del mondo: l'Età della fioritura, durante la quale le specie si moltiplicavano - bastava allora celebrare la sovrabbondanza di Lumos; l'Età della Semina, dove tutto si equilibrava mediante il lavoro della fattoria e dei campi - si trattava di coltivare i doni di Lumos; l'età dell'inaridimento, quando il numero e la varietà dei viventi hanno cominciato la fase del declino - bisognava dunque accompagnare i pentimenti di Lumos. Eravamo adesso nell'Età dell'inaridimento. Si era passati dall'erba selvaggia, al prato e infine all'erbario. O dalla raccolta, al raccolto e infine al museo di storia naturale. L'iniziativa del Compimento non venne dunque dagli stessi Flumi. Cominciò con una constatazione: la constatazione che si era entrati nell'Era finale. Piante e animali una volta comuni si facevano oggi sempre più rari. Tentarono di fermare l'emorragia, ma la ferita era introvabile. Provarono con le riproduzioni in cattività, ma vennero al mondo solo animali nevrastenici che avevano perso ogni appetito per la riproduzione. Come non arrendersi all'evidenza? Lumos voleva che gli esseri usciti dal suo seno, nel suo seno tornassero, passando a un modo di esistenza più spirituale o più perenne, e cioè allo stato di ricordo, di idea, di inventario scritto con un inchiostro indelebile. Poiché era impossibile bloccare l'estinzione, non c'era altro da fare che nobilitarla. Come un scrittore rovina la sua vita di relazione per lasciare alla posterità un capolavoro che troverà posto nelle biblioteche, così il processo di liquidazione era accelerato da una vasta e definitiva impresa di tassidermia. I naturalisti non sono forse tutti votati a tale "naturalizzazione"? Appena sono stati messi a punto i censimenti, migliorati i metodi di conteggio, afferrata la logica degli ecosistemi e sviluppato il senso della biodiversità, le spie rosse si sono accese, come se il loro sguardo potesse essere solamente quello di una gorgone compassionevole. Lo zoo di San Diego ha catturato gli ultimi drepanidi mascherati - piccoli uccelli tracagnotti che stavano spegnendosi su un'isola delle Hawaii - per salvarli dall'estinzione. I drepanidi tuttavia sono morti, e non rimase altro che mettere in cultura alcune delle loro cellule immergendole in un contenitore di azoto liquido a -196 gradi. Molti giardini zoologici si buttano sulla gestione di una "CryoBioBank". L'università di Nottingham in Inghilterra possiede ciò che chiama un'“Arca congelata”. Fu lì, presso la popolazione dei Flumi, che iniziai la prima versione di un testo autobiografico che non si intitolava ancora Missione in Metagonia. In cima alla copertina scrissi anche “Giuda era uno degli apostoli, o come uccisi mio fratello”. Aggiunsi sotto “Memorie”. Mentre proseguivo tale redazione, uno scultore venne parecchie volte a trovarmi. Disegnò degli schizzi, poi intraprese il taglio del mio busto in una pietra verde, quarzite o porfido, che vantò come “più dura del granito”: «Potrete andarvene in pace», concluse. Difatti, cosa mi restava di meglio da fare? Provavo una certa tranquillità. Non mi sentivo né bene né male. Mi abituavo al pensiero della mia morte prossima come a una normale porta, che avrei oltrepassato senza difficoltà maggiori di quella della mia camera. Non un suicidio, no, la mia poca fede mi vietava questa comodità. Mi vedevo solamente scomparire, dopo alcuni anni, nel mezzo di quell'Arca che era allo stesso tempo il più irreparabile diluvio.
(38, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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