giovedì 22 febbraio 2018
Nei campetti di periferia molti ragazzi giocano a calcio inseguendo il sogno di diventare un campione. Con le mani appoggiate alle recinzioni, do uno sguardo alla partita. Che dal vivo è diversa rispetto a come appare in televisione. Perfino nelle gare amatoriali, si possono ricavare elementi che sullo schermo non risultano. Ogni tanto mi sorprendo ad osservare qualche movimento speciale: il regista che smista il pallone scoprendo uno spazio nuovo; l'anticipo fulmineo del centrale sul diretto avversario; un dribbling sulla fascia; una bella parata. Come si fa a capire il talento? Cosa c'è di innato e cosa invece di acquisito? In quale modo reagisce il ragazzo che sente dentro di sé una predisposizione sportiva? L'asseconda, la esercita, la fa sua? Oppure ne resta schiacciato e la respinge come una soma faticosa? Mi è capitato di scambiare quattro chiacchiere con gli istruttori che, di fronte a queste mie curiosità, mi hanno sempre spiazzato. Il vero problema, dicono, non sono i ragazzi, ma i genitori. E mi invitano a guardarli. Lo faccio e cosa scopro nei volti del padre, della madre o dei parenti venuti ad applaudire il giovane rampollo? La paura di perdere, il furore agonistico, la voglia di primeggiare. L'ansia si comunica ai figli che non sempre sono in grado di gestirla.
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