Djokovic-Federer, i fuoriclasse insegnano
mercoledì 17 luglio 2019

Dopo quattro ore e mezza di partita, quando sull' 8-7 del quinto set della finale del torneo di tennis di Wimbledon, Roger Federer si è trovato in battuta con due match point a disposizione, nel mio cervello fatto di neuroni alimentati da emozioni sportive, è scattato una specie di cortocircuito. Ho iniziato a pensare a un racconto di Osvaldo Soriano, "Il rigore più lungo del mondo", uno di quei pochissimi esempi in cui la fiction, una narrazione fantastica di sport, riesce a gareggiare in bellezza con la realtà. È il racconto di una partita di calcio in Sudamerica dove Soriano, fuoriclasse della penna cresciuto a pane e realismo magico, dilata, sospende, annulla il tempo. Chi lo ha letto ha già capito, mentre a chi non lo ha letto invidio la meraviglia di poter scorrere, con lo stupore della prima volta, quelle 2.624 parole che compongono un capolavoro. Fatelo, ve lo consiglio.
Soriano si era inventato quel racconto, attingendo alla sua esperienza di calciatore, di giornalista e di romanziere. Invece chi domenica stava guardando la partita, era testimone di un fatto meravigliosamente reale: la finale più lunga della storia. Cortocircuito, quello del mio cervello, così forte da desiderare (mi perdoni Federer di cui sono tifoso) il contro-break di Djokovic, in modo quasi infantile, nella speranza che quella partita non finisse mai. Poiché, tranne che nel caso di Soriano e di pochi altri, la cronaca sportiva è sempre più mirabolante della fiction, Djokovic quel miracolo sportivo l'ha realizzato, facendo proseguire il match fino al 12-12, in prossimità delle cinque ore di gioco. Solo a quel punto la prosa, rappresentata da una decisione inedita nella storia del torneo, ha fatto irruzione per interrompere la poesia di un match epico. Achille ed Ettore devono fermarsi a quel punto, in ossequio a regole umane, e giocarsi una vittoria (o sconfitta) indimenticabile al tie-break. Un po' come all'oratorio quando al termine di partite infinite qualcuno urlava: "Chi fa l'ultimo gol vince!" Non un gol, ma sette punti.


Quasi cinque ore anestetizzate da sette punti, quelli necessari per passare alla storia. Come è finita certamente lo sapete, ma non è questa la cosa più importante, né la più curiosa. La cosa più curiosa è che l'atleta che ha fatto più ace, meno doppi falli, con la miglior percentuale sul primo servizio, di break point realizzati, di punti guadagnati in risposta, di giochi vinti, di numero di giochi e punti vinti consecutivamente, in sostanza con praticamente tutti i dati statistici a proprio favore... ha perso! Stupefacente e misteriosa caratteristica di tutti quegli sport (il tennis come la pallavolo) che si fondano sull'azzeramento del punteggio al termine di un set, per cui non tutti i punti sono uguali, ma ce ne sono alcuni che contano enormemente più degli altri. Certamente è una qualità saper giocare bene proprio quelli, ma altrettanto certamente non ci si può ritenere sconfitti se dopo cinque ore di battaglia si perde per un paio di scambi.
Tutti noi istintivamente ci schieriamo, scegliendo per chi tifare fra Ettore e Achille, comprendendo tuttavia come l'uno sia necessario all'altro. Anzi, senza l'uno, l'altro proprio non esisterebbe. Rimarranno due cose di queste cinque ore di tennis stellare, di questa meravigliosa finale di Wimbledon 2019: la prima è la consapevolezza che la magnitudine dei grandi campioni è proporzionale alla grandezza dei propri avversari, la seconda è che occorrerebbe obbligare tutti coloro che si credono campioni (nello sport e non solo) alla visione di queste cinque ore di classe, rispetto, bellezza, eleganza, forza, genialità, resilienza, rifiuto di ogni scusa o alibi. Cinque ore, dopo migliaia di ore di allenamento e di ettolitri di sudore, fatte di pochissime parole e moltissimi fatti. I fuoriclasse esistono proprio per insegnarci tutto questo.

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