
Qui bene amat bene castigat, “Chi ama bene, castiga bene”: da secoli, gli educatori di ogni sorta ripetono ai loro allievi questo adagio latino per giustificare le angherie e punizioni che infliggono loro, aggiungendo, con un tocco di ironia, che quelli sono atti d’amore. Non risulta, tuttavia, che questo adagio originariamente significhi che, se si ama qualcuno, bisogna punirlo per il suo bene, ma qualcosa di più giusto e di più essenziale: solo chi ama davvero è capace di applicare una punizione giusto e utile, che non sia in realtà vendetta o un mero castigo ma che abbia l’unico scopo di far crescere chi la riceve.
È sulla base di questa spiegazione che possiamo comprendere la paradossale beatitudine proposta dal salmista: «Beato l’uomo che tu castighi, Signore, e a cui insegni la tua legge!» (Sal 94,12). Se può esserci una felicità nell’essere puniti, non è per un qualche masochismo morboso, ma perché Dio sa come guidarci senza umiliarci. La nostra crescita passa sempre attraverso delle crisi, dei momenti di disagio che ci fanno andare avanti, delle scosse che ci mettono in movimento, delle prove che ci fanno maturare. Quando Dio si fa pedagogo, il castigo non ha niente a che vedere con i colpi di righello sulle dita.
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