venerdì 24 marzo 2017
Uno dei generi letterari che da sempre mi ha lasciato perplesso, persino quando ragazzo mi entusiasmavo per l'Essere o avere di un pensatore serio e in buona fede come Erich Fromm, è quello dei consigli per essere felici, per trovarsi in pace con se stessi e il mondo intorno. Con quale autorità, a partire da quali esperienze c'è chi si permette di dirci cosa fare per essere felici? E che idea di felicità costui si porta dietro e ci vuole comunicare? Oggi i libri di consigli di questo tipo li scrivono non soltanto i consueti Dulcamara della "felicità in scatola" (così la Morante parlando del cinema americano corrente: felicità in scatola come piselli in scatola...) ma illustri cattedratici, la cui idea di felicità può quadrare con la loro esperienza di vita soltanto se, come diceva Cioran, sono in definitiva o un po' o tanto "stupidi". La condizione fondamentale per essere felici era infatti, per il franco-romeno, di essere stupidi, il resto era ed è secondario. In un bel romanzo recente del grande Lars Gustafsson (La ricetta del dottor Wasser, Iperborea, storia di un falso medico che può ricordare in qualche modo la commedia di Curt Goetz Dottor Pretorius e il bel film che ne trasse Mankiewicz con Cary Grant, La gente mormora) si dice che «vivere una vita normale è la forma più triste di suicidio». È una battuta assai forte e discutibile ma che ha il merito di mettere in discussione l'idea corrente di felicità, che consiste in definitiva nell'armonia con il proprio ambiente e con la coscienza dimenticandosi del resto: delle inquietudini esistenziali («Chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?»), della ricerca del senso e, oggi soprattutto, semplicemente dei mali del mondo, della sofferenza dei nostri simili sottoposti più di noi alle violenze della storia, all'indifferenza o cattiveria di parte dell'umanità, alla precarietà dell'esistenza e della "fortuna". In questo senso, sì, è indispensabile essere un po' o molto stupidi per essere felici, ed è indispensabile fare come le tre famose scimmiette della tradizione: non-vedo, non-sento, non-parlo. Forse, ma non ricordo chi lo diceva, non si tratta di vagheggiare una "vita felice" ma di avere, più semplicemente e realisticamente, una vita intensa, piena, e, come aggiungeva nel titolo di un vecchio libro uno scrittore dimenticato, Massimo Bontempelli, una vita operosa. Vissuta con e per gli altri, e magari anche ricordandoci della "perfetta letizia" dei Fioretti.
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