sabato 13 luglio 2019
«Ogni cristiano si sente chiamato a condividere la pena e la difficoltà dell'altro, nel quale Dio stesso si nasconde. Ma l'aprirsi alle necessità del fratello implica un'accoglienza sincera, che è possibile solo in un atteggiamento personale di povertà nello spirito. Non esiste infatti solo una povertà di segno negativo. C'è anche una povertà che è benedetta da Dio: è quella che il Vangelo chiama "beata". Grazie a essa, il cristiano riconosce che la propria salvezza viene esclusivamente da Dio e si rende disponibile ad accogliere e servire il fratello giudicandolo "superiore a se stesso". L'atteggiamento di povertà spirituale è frutto del cuore nuovo che Dio ci dona... e deve maturare mediante atteggiamenti concreti, quali lo spirito di servizio, la disponibilità a cercare il bene dell'altro... l'impegno nel combattere l'orgoglio che ci chiude rispetto al nostro prossimo. Questo clima di accoglienza si rende tanto più necessario, in quanto nella nostra epoca assistiamo a diverse forme di rifiuto dell'altro. Esse si manifestano in maniera grave nel problema dei milioni di rifugiati ed esiliati, nel fenomeno dell'intolleranza razziale anche verso persone che hanno la sola "colpa" di cercare lavoro e migliori condizioni di vita fuori della loro patria, nella paura rispetto a tutto ciò che è diverso e che è perciò visto come minaccia... L'accoglienza nei loro riguardi resta una sfida per la comunità cristiana, la quale non può non sentirsi impegnata a far sì che ogni uomo possa trovare condizioni di vita confacenti alla sua dignità di figlio di Dio!».
Parole di Papa Francesco? No, a scriverle più di venti anni fa è stato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la Quaresima del 1998. Parole che, mentre indicano un'urgenza del "fare" indisponibile a calcoli di convenienza, sottolineano quello che deve essere l'atteggiamento che deve distinguere il cristiano. E cioè la "povertà in spirito" che, secondo il dettato delle Beatitudini, non deve mai farci sentire superiori a nessuno ma – appunto – spingere ciascuno a riconoscere il fratello come «superiore a se stesso». Un concetto fondamentale perché, come ha sottolineato qualche giorno fa papa Francesco parlando degli apostoli Pietro e Paolo, «il punto di partenza della vita cristiana non è l'essere degni; con quelli che si credevano bravi il Signore ha potuto fare ben poco. Quando ci riteniamo migliori degli altri è l'inizio della fine. Il Signore non compie prodigi con chi si crede giusto, ma con chi sa di essere bisognoso. Non è attratto dalla nostra bravura, non è per questo che ci ama. Egli ci ama così come siamo e cerca gente che non basta a sé stessa, ma è disposta ad aprirgli il cuore. Pietro e Paolo sono stati così, trasparenti davanti a Dio. Hanno compreso che la santità non sta nell'innalzarsi ma nell'abbassarsi: non è una scalata in classifica ma l'affidare ogni giorno la propria povertà al Signore, che compie grandi cose con gli umili. Qual è stato il segreto che li ha fatti andare avanti nelle debolezze? Il perdono del Signore».
In questo tempo in cui l'esercizio della povertà in spirito sembra del tutto fuori moda e tanti, anche credenti, si ergono al rango di "maestri" capaci di insegnare anche al Papa, forse è il caso di fare un esame di coscienza e di chiederci, con Francesco: «Io rinnovo ogni giorno l'incontro con Gesù? Magari siamo dei curiosi di Gesù, ci interessiamo di cose di Chiesa o di notizie religiose. Apriamo siti e giornali e parliamo di cose sacre. Ma così si resta al che cosa dice la gente, ai sondaggi, al passato. A Gesù interessa poco. Non vuole reporter dello spirito, tanto meno cristiani da copertina. Egli cerca testimoni, che ogni giorno Gli dicono: "Signore, tu sei la mia vita"». Sapremo essere noi questi testimoni?
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