sabato 28 marzo 2020
In un ospizio del Salento 83 anziani sono rimasti soli per due giorni dopo che il virus aveva ucciso un ospite, contagiato altri, e il personale era finito in quarantena. Dopo 48 ore digiuno, senza assistenza né pulizia, è intervenuto di persona il sindaco. Negli ultimi mesi, accompagnando in ospedale una novantenne, ho visto da vicino cosa significhi essere vecchi, e soli e malati. In un Pronto Soccorso del centro di Milano, pochi giorni prima dell’epidemia, arrivavano, una notte, in tanti, in ambulanza, non accompagnati. Un corridoio era un’unica coda di barelle. Alcuni erano lì da 24 ore, non avevano dormito e nemmeno mangiato. Ecco, se penso a quei volti bianchi, ai capelli scarmigliati, ai richiami cui un unico infermiere di turno non riusciva a rispondere, posso vagamente immaginarmi cosa sono 82 vecchi completamente abbandonati, come in Salento. Una malata quella sera mi chiese di scriverle su un biglietto il suo nome e indirizzo, perché temeva di dimenticarli. Un’altra piangeva perché le scappava, e nessuno la portava in bagno. Un uomo aveva sete, e uno di noi sconosciuti gli portò dell’acqua. Il Covid ancora non c’era, ma di figli accanto quei poveretti non ne avevano. I loro gemiti mi sembravano un coro di canuti bambini, impotenti come lattanti. Temo che oggi, in Salento e non solo, quel coro straziante si ripeta. Anni fa, in un ospizio milanese, un’anziana sola su una panchina mi domandò, guardandomi con occhi di un candore infantile: «Signora, lei sa quando viene a prendermi la mia mamma?». Nel limbo della demenza senile alcuni aspettano la mamma – che tarda, ma certo verrà a prenderti, come a scuola, in remote mattine. E nell’inferno del Covid penso ai persi nella demenza, che aspettano la mamma. Che attendono quella mano amata che li conduca finalmente a casa – la vera nostra casa.
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