Vecchi fantasmi e nuovi demoni
mercoledì 20 settembre 2023

Un vecchio fantasma e tanti demoni nuovi. Dietro l’ennesimo attacco dell’Azerbaigian al Nagorno Karabakh, ancora in larga parte controllato dai separatisti armeni, c’è una micidiale combinazione di elementi che rende la pacificazione della regione, e la risoluzione della contesa territoriale, sempre più difficile. Il vecchio fantasma è ciò che siamo soliti chiamare “fine dell’Urss”, un processo non ancora concluso che ha trascinato con sé, a valle dei decenni, un patrimonio ingrato di contese che il diritto internazionale non è riuscito a frenare. Minoranze di una certa lingua o cultura che si sono ritrovate parte di patrie altrui, confini arbitrari, appartenenze religiose di colpo contrapposte. E un sacco di politici disposti ad approfittarne. I due conflitti da tempo accesi, quello tra Russia e Ucraina e quello tra Azerbaigian e Armenia, hanno le radici nel gran pasticcio sovietico. Il Cremlino può raccontarsi che certe terre e certe genti erano sue, non ucraine. Gli armeni che quel Nagorno è loro perché Tigrane II d’Armenia lo conquistò un secolo prima di Cristo, perché due secoli dopo gli armeni lo cristianizzarono, perché le invasioni di arabi, tatari e turchi non riuscirono a cacciarli, perché alla conquista bolscevica del 1920, quando Stalin decise di assegnarlo all’Azerbaigian, la sua popolazione era al 95% armena.

Quando i successori dell’Urss cercarono con fatica di mettersi d’accordo (Trattato di Minsk 1991, di Alma Ata 1991, Memorandum di Budapest 1994), accettarono in sostanza due principi. I confini dei nuovi Stati indipendenti restavano quelli (a suo tempo del tutto formali) che vigevano tra le ex Repubbliche Sovietiche. E i nuovi Governi si assumevano la responsabilità del benessere delle minoranze che si ritrovavano in casa. Un perfetto patto tra gentiluomini, se solo ci fosse stata abbondanza di gentiluomini. Dall’Ossetia del Sud e dall’Abkhazia (Georgia) al Nagorno Karabakh degli armeni, dal Donbass russo-ucraino ai tatari della Crimea, dai russofoni della Transnistria moldava ai gruppi di russi nei Paesi baltici, una minoranza che fosse o si sentisse discriminata c’era sempre, un Governo che vedeva la minoranza al servizio di altri pure, per non parlare di un confine da giudicare arbitrario. E la volontà di spargere scintille non è mai mancata.

Secondo il diritto (e l’ha confermato una risoluzione Onu del 2008), il Nagorno Karabakh è territorio dell’Azerbaigian, com’era quando l’Urss si sciolse e gli indipendentisti armeni, in capo ad anni di scontri e reciproci attentati, passarono all’offensiva, proclamando la Repubblica dell’Artsakh (che l’Armenia, prudente, non ha mai riconosciuto) e creando il caso per una guerra durata due anni che fece 30mila morti. Come per tutti i conflitti di quell’epoca nello spazio post-sovietico, il resto del mondo non si fece troppi crucci. Andai allora sia a Stepanakeart, la capitale del Nagorno armeno, sia in Azerbaigian. Gli uni e gli altri vivevano al gelo, gli armeni con i buchi delle cannonate nei muri di casa, i profughi azeri accatastati dentro vagoni ferroviari. Nel frattempo, sono cambiate poche ma decisive cose. L’Azerbaigian, con gas e petrolio, si è fatto ricco e potente, anche negli armamenti. L’Armenia invece, che gas e petrolio non li ha, è rimasta povera. In più la Russia, il grande Paese cristiano che si atteggiava a protettore del piccolo Paese cristiano dell’Armenia, ha deciso di invadere l’Ucraina, trovandosi un anno e mezzo dopo con un apparato industrial-militare messo alla frusta dalla guerra, un sistema economico assediato dalle sanzioni e una rete di relazioni esterne ridotta all’essenziale, che non le permette per esempio di inimicarsi troppo la Turchia, con cui è molto in affari ma che, per sua sfortuna, è schierata senza esitazioni con l’Azerbaigian.

Così l’Armenia oggi è debole e, soprattutto, sola. I 2.000 peacekeeper che la Russia ha mobilitato non sono riusciti a impedire la chiusura da parte azera del Corridoio di Lachin, unico collegamento tra il Nagorno e l’Armenia, né a farlo riaprire mentre gli armeni rischiavano di morire di stenti. Il premier armeno Pashinyan si è allora rivolto agli Usa, ha mandato le sue truppe a esercitarsi con le loro, ma non si vede perché gli americani dovrebbero fare un torto a un alleato storico come il presidente azero Aliev e alla Turchia, che è pur sempre un Paese della Nato. E nemmeno l’Europa mostra alcuna voglia di mobi-litarsi. L’alto commissario Borrell ha già escluso qualunque ipotesi di sanzione contro l’Azerbaigian e non è difficile capire perché: chiuse le porte al gas russo, abbiamo chiesto agi azeri di fornircene 20 miliardi di metri cubi l’anno invece dei soliti 8. Possiamo dare un dispiacere al presidente Aliev? Il ministero degli Esteri azero nelle scorse ore ha parlato: la pace verrà, ha detto, quando tutte le forze armene lasceranno il Nagorno Karabakh «e il regime (ovvero la Repubblica dell’Artsakh, n.d.r.) sarà disperso». L’obiettivo è chiaro: la pulizia etnica e religiosa della regione. In questo momento, è difficile vedere come l’Armenia possa trovare una via d’uscita.

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